A distanza di ben sei anni dal discusso kolossal Agorà (2009) nel 2015 irrompe nelle sale la nuova fatica di Alejandro Amenábar, un ritorno al cinema di genere che lo aveva portato alla fama internazionale agli inizi della propria carriera: Regression. Nonostante (o forse anche proprio a causa di) attori di assoluto richiamo e l'enorme attesa nei confronti dell'ultima opera di un autore amato sia dai cinefili che dalla critica il film si è rivelato un enorme flop commerciale e, soprattutto, una enorme delusione per la stessa critica, che ha immediatamente decretato la morte artistica del cineasta spagnolo. Possibile che questi abbia davvero dimenticato come si gira un buon film? Insomma è veramente tanto noioso e blando il film che ho deciso di analizzare? Io ho qualche dubbio a riguardo e tra poco scoprirete che qualche motivo di interesse che ne giustifichino quanto meno una visione ci sono.
In una pellicola che attraversa vari generi mantenendo allo stesso tempo un impianto narrativo da thriller diventa controproducente rivelare troppo della trama, motivo per il quale mi limito a rivelare soltanto una breve sinossi: nell'ormai lontano 1990 il detective di una piccola cittadina americana Bruce Kenner (Ethan Hawke) si ritrova a indagare su un caso di abusi sessuali in famiglia, per la precisione del religiosissimo padre sulla figlia diciassettenne (Emma Watson), che si trasforma improvvisamente in un tassello di una misteriosa ondata di presunti crimini legati a sette sataniche su cui persino l'FBI aveva indagato.
Satanismo e film horror non è certo la combinazione più innovativa che si sia mai vista in sala e anzi richiama immediatamente pietre miliari quali Rosemary's Baby (Roman Polanski, 1968) o The Omen (Richard Donner, 1976), riferimenti passati che vengono volutamente sfruttati nella costruzione narrativa elaborata da Amenábar al fine di rendere più spiazzante possibile il twist finale. Proprio la presunta volontà di voler ingannare il pubblico con topoi noti a tutti per poi ribaltarli nel finale in stile M. Night Shyamalan è risultata essere uno dei punti deboli di Regression, soprattutto a causa dei fin troppi indizi disseminati nel corso dell'opera che lasciano presagire il risvolto finale e l'interpretazione di Emma Watson nel ruolo chiave di meneur de geste rende il tutto ancor più debole. Ora che mi sono liberato della parte meno riuscita del lavoro del regista di Abre los Ojos (1997) posso finalmente dilungarmi sugli aspetti più interessanti dello stesso. Apprezzata anche da gran parte della critica l'ambientazione appare da subito estremamente ben costruita, fedele non solo agli anni 90 e alle piccole comunità americane ma anche al cinema di genere di quel periodo, l'ultima stagione ancora vergine dagli influssi del digitale e del ritmo da videoclip. Oltre alla qualità nel calare la storia e lo spettatore nel giusto contesto spazio-temporale l'ambiente risalta grazie all'ottima fotografia, ricca di contrasti chiaroscurali e perfettamente adatta a rendere palpabile la presenza di un non ben definito male che infesta l'intera comunità americana, così come egregie risultano le musiche composte da Roque Baños.
Tutto questo lavoro purtroppo non è bastato a salvare la pellicola dai duri giudizi subiti e a mio avviso il motivo principale è dovuto all'eccessivo peso dato alla narrazione rispetto allo stile, che dovrebbe in realtà essere l'elemento principale di qualsiasi film di genere. La regia del cineasta nato in Cile si rivela superba, capace di creare momenti di suspense esasperante e soprattutto inquadrature visivamente imponenti, come ad esempio le visioni in cui appaiono i satanisti dal volto truccato. Proprio queste sequenze varrebbero da sole il prezzo della visione del lungometraggio grazie alla loro intrinseca bellezza estetica e alla capacità, insieme alle altrettanto superbe soggettive, di catapultare lo spettatore in quello che ho definito kaleidoscopio della mente, uno dei temi ricorrenti nel cinema di Amenábar nel quale la realtà non è mai ben definita, bensì risulta sempre essere filtrata dalla soggettività alterata dei protagonisti. Nel caso in analisi il detective Kenner, interpretato con efficacia dal mai troppo lodato Ethan Hawke, inizialmente appare un uomo estremamente razionale e impermeabile al clima di superstizione che investe invece il resto dei personaggi ma con l'approfondimento delle indagini e soprattutto con l'uso continuato della regressione sulle presunte vittime del complotto satanico anche l'uomo finisce per restare vittima di un processo simile, che lo porta a non essere più in grado di distinguere cosa sia reale e ad affidarsi ciecamente alla fede. Esemplare di questa vorticosa perdita di certezze è la sequenza in cui il protagonista torna nella centrale di polizia attraverso una soggettiva identica a quella dell'incipit in cui il soggetto con cui si identificava la mdp era il padre di Angela/Emma Watson, la prima figura a non sapere più cosa gli accada realmente.
In definitiva Regression merita a mio parere una visione, certo per molti di voi non resterà che una buona occasione sprecata ma ricca comunque di numerosi spunti e di una cura formale molto rara nel thriller o nell'horror.
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