Reduce dall'ottimo riscontro critico ricevuto dall'opera prima The Virgin Suicides (1999) la figlia d'arte Sofia Coppola scrive, dirige e produce Lost In Translation, arrivato nelle sale nel 2003. La seconda prova della cineasta si rivela un successo strepitoso in tutti gli ambiti grazie a incassi superiori ai 100 milioni di dollari, recensioni entusiaste e addirittura la vittoria di numerosi premi, tra cui persino l'Oscar per la miglior sceneggiatura originale e ben tre Golden Globe.
La trama della pellicola è molto semplice e scevra di veri e propri avvenimenti. Protagonisti sono due americani che si ritrovano per motivi diversi per alcuni giorni a Tokyo: Bob Harris (un Bill Murray che, complice una certa dose di somiglianza con il personaggio interpretato, regala una performance straordinaria) è un attore di mezza età che si ricicla pubblicizzando una marca di whisky, mentre Charlotte (una Scarlett Johansson agli esordi eppure assolutamente adatta al ruolo) è una ragazza laureata in filosofia e sposata da due anni con un fotografo, preso più dal suo lavoro che dalla moglie, che ha ricevuto proposte di lavoro in Giappone. Due persone agli antipodi vengono accomunate dalla stessa crisi esistenziale e dallo stesso hotel, tanto da farli avvicinare nonostante il pochissimo tempo trascorso insieme.
Con una sinossi simile Lost In Translation potrebbe apparire una tipica commedia romantica hollywoodiana ma basta la prima inquadratura a catapultare lo spettatore in un prodotto di ben altra levatura; sia la regia che la penna di Sofia Coppola sono subito riconoscibili per intimità ed eleganza nel tratteggiare un amore completamente diverso da quello del cinema classico. La più grossolana ma non per questo meno importante cesura nei confronti della tradizione è l'assenza dell'immancabile scena di sesso tra i due innamorati, che di solito arriva a suggellare il sentimento sviluppatosi fra di essi: Bob e Charlotte non solo non hanno mai rapporti fisici (al massimo si scambiano un commovente bacio nel finale) ma limitano al massimo qualsiasi contatto fisico stando al contempo sempre molto vicini l'uno all'altro.
Perché i personaggi principali sentono questo grande bisogno di vicinanza priva di sessualità? Il motivo risiede in quella sensazione che pervade tutto il film e che ho citato nel titolo della analisi in atto, ovvero l'incomprensione, avvertita a livelli diversi ma aventi la stessa importanza. Il primo livello risulta essere chiaramente di tipo linguistico/ambientale visto che nessuno dei due parla o capisce bene la lingua del paese in cui si trovano e si sentono spaesati da una cultura che non conoscono, aliena a livelli stratosferici. La Tokyo immortalata dalla figlia di Francis Ford Coppola appare una giungla urbana sempre in movimento, piena di colori abbaglianti e popolata di figure estranee e dai comportamenti imprevedibili. Charlotte sembra all'apparenza districarsi con una certa disinvoltura in questa realtà (è sempre lei a far conoscere nuovi posti e nuove persone all'amico interpretato da Bill Murray) eppure non riesce mai a trovarsi a suo agio, appena può cerca sempre l'evasione e non riesce a comunicare davvero con nessuno, soprattutto con suo marito. Bob d'altro canto arriva nel paese nipponico controvoglia (emblematica la sequenza in cui dice di trovarsi a far una pubblicità per due milioni di dollari quando avrebbe potuto essere su un qualche set a recitare) e si ritrova circondato da persone che o non parlano la sua lingua oppure lo fanno in modo sbrigativo e claudicante in una città agli antipodi del suo carattere pacato, quasi citazionista dei divi del cinema classico americano (non possono essere casuali i numerosi riferimenti a grandi star quando cerca l'espressione giusta per il fotografo della pubblicità). La frenesia e la freddezza della capitale giapponese non fanno che aumentare il senso di solitudine provato dai protagonisti, i quali per questo si rifugiano sempre nella calma intima dell'hotel, veicolando così una non troppo velata critica allo stile di vita asettico del mondo contemporaneo.
Tutto ciò porta finalmente a riflettere sul livello di incomprensione che maggiormente accomuna Bob e Charlotte, ossia quello più legato alla sfera sentimentale ed emozionale. I due americani, nonostante la differenza d'eta e di stili di vita, si trovano in una profonda crisi interiore dovuta all'impossibilità di realizzare le proprie aspirazioni e soprattutto di comunicare i propri stati d'animo alle persone che dovrebbero essere più vicine, i rispettivi coniugi. Questa condizione simile viene quasi fiutata dai due nel momento in cui si trovano nello stesso luogo e li porta ad avvicinarsi delicatamente, quasi come se fossero due adolescenti alle prese con tutti i timori tipici del primo amore. Proprio come tra due quattordicenni il sentimento, inizialmente nato come amicizia, si rafforza in un lasso di tempo di pochi giorni fino a diventare amore ma sempre in maniera delicata, da un lato per il desiderio di mantenere una certa rispettabilità (in fondo sia Bob che Charlotte sono sposati) ma dall'altro anche per la paura ad aprirsi con gli altri maturata appunto dalla freddezza mostratagli dai compagni. A rendere veramente credibile il flebile crescendo di un amore così anomalo è, oltre alla recitazione ben al di sopra della media dei due attori protagonisti, la regia della Coppola, leggiadra quasi ai limiti del glaciale ma anche abbagliante quando ritrae le luci sfolgoranti della Tokyo odierna.
A concludere la parabola emotiva di Lost In Translation e anche questa riflessione si trova inevitabilmente il mistero legato a ciò che Bill Murray bisbiglia a Scarlett Johansson nel loro ultimo incontro e che porta i due a sorridere nonostante la separazione imminente; probabilmente l'uomo, oltre a confessare il suo amore per la ragazza, le promette un futuro prossimo insieme ma questa è soltanto un'ipotesi, persino la cineasta è rimasta allo scuro delle parole pronunciate sottovoce in questa sequenza!
Siate liberi di condividere qui le vostre ipotesi sul finale e le eventuali riflessioni scaturite da questo post.
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