Il cinema, come moltissimi altri argomenti popolari, è ricco di frasi fatte, vulgate e stereotipi con cui molti riescono a evitare la presunta ignominia di dover ammettere di non sapere niente su un determinato movimento, regista o di non aver mai visto neanche mezzo minuto di quel film. A mio modesto parere rientra in questa categoria l'etichetta di "gotico padano" cui viene accompagnato immancabilmente Pupi Avati, autore certamente di alcuni straordinari lungometraggi di genere, in particolare horror o gialli, ma gotici? Fino a qualche giorno fa avrei detto che in realtà ne ha diretto solamente uno, Il nascondiglio, nel 2007, poi ho finalmente recuperato L'orto americano, presentato al Festival di Venezia del 2024 per poi essere distribuito ufficialmente in sala solamente nel marzo di quest'anno, ricevendo recensioni piuttosto tiepide, soprattutto per quanto concerne la sceneggiatura.
Ambientata nell'immediato secondo dopoguerra, la pellicola segue la ricerca da parte di un giovane scrittore anonimo (Filippo Scotti) di una ausiliaria americana scomparsa (Mildred Gustavsson), vista in realtà una sola volta mentre il ragazzo si trovava da un barbiere. L'investigazione inizia negli Stati Uniti, dove il protagonista si trasferisce per qualche tempo, finendo proprio nella casa accanto a quella della madre della giovane (Rita Tushingham), la cui disperazione, insieme alla stranezza della coincidenza, convince lo scrittore di dover riuscire in tutti i modi a ritrovare la ragazza, persino a costo della sua vita quando è costretto a rientrare in Italia.
Se anche la breve sinossi appena esposta può apparire confusionaria è perché, difatti, L'orto americano si dipana in un racconto tutt'altro che lineare e classico, non per svogliatezza da parte di Avati, autore anche della sceneggiatura, bensì a causa di una precisa volontà di perseguire un andamento sognante, tipico dell'altrettanto preciso riferimento facilmente riscontrabile nel film. La centralità di una coppia di donne (quasi) identiche fisicamente ma apparentemente opposte caratterialmente, una complessa indagine che porta il protagonista a scendere negli inferi del lato oscuro della società e della propria psiche, il bianco e nero della fotografia estremamente stilizzato nel taglio delle ombre e così via: una lunga serie di caratteri onnipresenti nel noir americano degli anni Quaranta e in particolare nella filmografia di Robert Siodmak, maestro tedesco trasferitosi negli Stati Uniti per sfuggire alle persecuzioni naziste. L'autore di capisaldi del genere quali Lo specchio scuro (The Dark Mirror, 1948) o I gangsters (The Killers, 1946) esemplifica alla perfezione la tendenza che porta molti colleghi europei trapiantati a Hollywood a utilizzare la maggiore libertà espressiva offerta dalle storie criminali di questo tipo per poter continuare a sperimentare con i mezzi utilizzati nel corso dell'esplosione delle avanguardie tedesche della Repubblica di Weimar, compresa l'esplorazione, tramite anche una messinscena estremamente antinaturalistica, di ossessioni e perversioni fin troppo umane, agli antipodi della rassicurante visione cinematografica della classicità hollywoodiana. Una vera e propria versione filmica di quel mondo gotico che aveva segnato nei decenni precedenti la letteratura, europea e non solo, in cui realtà e immaginazione sfumano l'uno nell'altro costantemente e gli edifici, spesso infestati da presenze più o meno fantasmatiche, finiscono per diventare simboli dei traumi da cui i personaggi tentano, con scarso successo di fuggire.
Questo è l'immaginario che Avati, con molta più decisione anche rispetto al suo capolavoro La casa dalle finestre che ridono (1976), riporta in vita, a partire dall'elegantissimo quanto opprimente bianco e nero con cui dipinge le peregrinazioni dell'anonimo scrittore, la cui presenza quasi kafkiana, resa con grande efficacia da Scotti, da un lato recupera anche il flaneur tipico del giallo all'italiana cui può essere ascritto il sopracitato lungometraggio, ma dall'altro sottolinea come il vero fulcro della narrazione non sia la soluzione del mistero più concreto, bensì quello ancor più complesso e inafferrabile riguardante la natura del reale, la fallacia della percezione umana e i demoni con cui siamo costretti a scendere a patti ogni singolo giorno. La Bologna distrutta dai bombardamenti, così come lo sperduto paesino dell'Iowa e le ormai celeberrime langhe delle valli di Comacchio sempre presenti nel versante più oscuro della filmografia avatiana, rappresentano con notevole forza immaginifica e persino sensoriale la presenza del Male, quello atavico, irrazionale che popola le fiabe, nel mondo quotidiano, sfociando poi in infinite varietà, dall'orrore della guerra e delle sue conseguenze (si pensi alla pratica di vendere i cadaveri caduti in battaglia ai loro cari) fino a un serial killer che trova soddisfazione nel mutilare i genitali femminili e rivendicare la sua "arte" con dei frammenti poetici ellenisti. Per molti potrà risultare straniante l'andamento onirico, privo di risposte certe anche nel finale, scelto dall'autore di Zeder (Pupi Avati, 1983), ma altri non è se non il marchio di fabbrica di quel gotico travestito da thriller metropolitano che il cineasta bolognese trapianta nel milieu che conosce meglio e che si adatta perfettamente allo scavo attraverso la cantina più spaventosa dell'animo umano. Come ogni incubo L'orto americano non si spiega e non si comprende, si abbraccia per poterci risvegliare scossi, ma anche un po' felici di esserne usciti vivi.