venerdì 7 novembre 2025

PRESENCE: WE LIKE TO WATCH

Tra le figure più singolari che popolano Hollywood da ormai trent'anni, Steven Soderbergh fa della propria vita un'opera d'arte sul tema del doppio: alterna blockbuster o produzioni ad alto budget e fieramente di genere, spettacolari e ricche di star riconosciute in tutto il mondo, a pellicole fuori dagli schemi convenzionali, in cui sperimenta con le infinite possibilità offerte dal mezzo cinematografico, in special misura dall'avvento del digitale. Come ogni racconto sul doppio ci rivela, però, ognuna delle due anime costituisce parte integrante di un singolo individuo, per cui anche questa apparente dualità nasconde in realtà un'unica, forte idea di cosa sia la settima arte, nella quale convivono in perfetta simbiosi narrazione e stile, emozione e riflessione intellettuale. Perfetto esempio di questa visione è Presence, diretto dall'autore statunitense nel 2024 a partire da una sceneggiatura dell'altrettanto esperto David Koepp. Con un budget molto ristretto per gli standard americani (circa 2 milioni di dollari) e una sola star a dominare il cast, Lucy Liu, il film viene accolto da recensioni in gran parte positive e discrete cifre al box office per una produzione di questo tipo, sebbene gli aggregatori online relativi alle opinioni dell'utenza comune mostrino reazioni ben più tiepide.


La pellicola, composta da una serie di piani sequenza interrotti da alcune dissolvenze al nero, segue l'arrivo in una nuova casa della famiglia composta dai coniugi Rebekah (Lucy Liu) e Chris Payne (Chris Sullivan) e dai due figli Chloe (Callina Liang) e Tyler (Eddy Maday). Mentre i protagonisti si trovano in una crisi dei loro rapporti che sembra pronta a esplodere da un momento all'altro, Chloe, che soffre a causa della perdita di due sue amiche per una presunta overdose, diventa spettatrice in camera sua di eventi soprannaturali, che si propagano poi in tutta la casa, fino a coinvolgere tutti gli abitanti.


A cominciare dal primo dei numerosi piani sequenza che lo costituiscono, Presence rivela la sua natura di ghost story atipica, che solo in superficie rispetta i canoni di uno dei racconti che accompagna la settima arte fin dai suoi albori. La scelta di limitare fortemente l'uso del montaggio, evidenziato peraltro con un segno di interpunzione forte come la dissolvenza al nero, insieme alla natura ambigua dello sguardo della macchina da presa, che inizialmente sembra palesemente soggettivo per poi porsi in alcuni casi alla stregua di una oggettiva da cinema classico, riporta proprio alle origini del medium, quando la sua grammatica non era ancora ben definita, così come il suo status narratologico, e dunque ogni singolo artista utilizzava le immagini in movimento secondo la propria sensibilità di pioniere. Recuperando dunque il forte carattere sperimentale del cinema delle origini, o delle attrazioni come direbbe Sandro Bernardi, Soderbergh crea un horror che pesca a piene mani dalla fantasmagoria e da tutto quell'immaginario di spiritismo (citato anche esplicitamente attraverso una sensitiva nella trama) e strumenti illusori precinematografici di cui il cinematografo rappresenta il culmine tecnologico e spettacolare, motivo per cui molti dei primi film di cui abbiamo notizia (si pensi a Méliès) giocano proprio sulle capacità di affabulazione affine alla prestidigitazione della cinepresa.

All'interno della suddetta fascinazione per il mondo del cinema delle origini, l'autore di Sesso, bugie e videotape (Sex, Lies and Videotape, Steven Soderbergh, 1989) esalta il carattere scopico di questo mezzo espressivo, facendo dello spettro che segue costantemente le vicende della famiglia Payne un avatar non solo del regista stesso, che in questo caso assume anche le vesti di direttore della fotografia, ma, soprattutto, del pubblico, che proprio in quanto tale si rende protagonista di un atto di scopofilia, di piacere provocato dalla possibilità di spiare quanto accade a un gruppo di personaggi dall'altra parte dello schermo, esattamente come un voyeur che spia il proprio vicinato con un cannocchiale, ricordando la lezione hitchcockiana o depalmiana. Ma come si concilia tutto ciò con il racconto della crisi famigliare e del lutto che ha colpito Chloe? Proprio l'identificazione tra spettro, macchina da presa e spettatore permette a quest'ultimo di entrare attivamente tra le maglie delle dolorose disavventure cui vanno incontro i personaggi, dando forma sensibile al desiderio di aiutare chi vive la diegesi che è proprio del rapporto empatico tra i due estremi dello schermo, abbandonando la caratura prettamente teoretica e ideale di tutte le riflessioni ormai centenarie sul tema della spettatorialità.


"I like to watch" affermava a più riprese Jake Scully in Omicidio a luci rosse (Body Double, Brian De Palma, 1984), riassumendo in quattro brevi parole il cuore dell'esperienza cinematografica, che Presence sceglie di formalizzare attraverso una ghost story in cui il pubblico interagisce direttamente nella lotta con i propri demoni di quattro personaggi comuni, in cui non casualmente il vero mostro non è il fantasma, bensì un ragazzo benestante dal viso acqua e sapone.