domenica 29 giugno 2025

L'ORTO AMERICANO: LO SPECCHIO SCURO AVATIANO

Il cinema, come moltissimi altri argomenti popolari, è ricco di frasi fatte, vulgate e stereotipi con cui molti riescono a evitare la presunta ignominia di dover ammettere di non sapere niente su un determinato movimento, regista o di non aver mai visto neanche mezzo minuto di quel film. A mio modesto parere rientra in questa categoria l'etichetta di "gotico padano" cui viene accompagnato immancabilmente Pupi Avati, autore certamente di alcuni straordinari lungometraggi di genere, in particolare horror o gialli, ma gotici? Fino a qualche giorno fa avrei detto che in realtà ne ha diretto solamente uno, Il nascondiglio, nel 2007, poi ho finalmente recuperato L'orto americano, presentato al Festival di Venezia del 2024 per poi essere distribuito ufficialmente in sala solamente nel marzo di quest'anno, ricevendo recensioni piuttosto tiepide, soprattutto per quanto concerne la sceneggiatura.


Ambientata nell'immediato secondo dopoguerra, la pellicola segue la ricerca da parte di un giovane scrittore anonimo (Filippo Scotti) di una ausiliaria americana scomparsa (Mildred Gustavsson), vista in realtà una sola volta mentre il ragazzo si trovava da un barbiere. L'investigazione inizia negli Stati Uniti, dove il protagonista si trasferisce per qualche tempo, finendo proprio nella casa accanto a quella della madre della giovane (Rita Tushingham), la cui disperazione, insieme alla stranezza della coincidenza, convince lo scrittore di dover riuscire in tutti i modi a ritrovare la ragazza, persino a costo della sua vita quando è costretto a rientrare in Italia.


Se anche la breve sinossi appena esposta può apparire confusionaria è perché, difatti, L'orto americano si dipana in un racconto tutt'altro che lineare e classico, non per svogliatezza da parte di Avati, autore anche della sceneggiatura, bensì a causa di una precisa volontà di perseguire un andamento sognante, tipico dell'altrettanto preciso riferimento facilmente riscontrabile nel film. La centralità di una coppia di donne (quasi) identiche fisicamente ma apparentemente opposte caratterialmente, una complessa indagine che porta il protagonista a scendere negli inferi del lato oscuro della società e della propria psiche, il bianco e nero della fotografia estremamente stilizzato nel taglio delle ombre e così via: una lunga serie di caratteri onnipresenti nel noir americano degli anni Quaranta e in particolare nella filmografia di Robert Siodmak, maestro tedesco trasferitosi negli Stati Uniti per sfuggire alle persecuzioni naziste. L'autore di capisaldi del genere quali Lo specchio scuro (The Dark Mirror, 1948) o I gangsters (The Killers, 1946) esemplifica alla perfezione la tendenza che porta molti colleghi europei trapiantati a Hollywood a utilizzare la maggiore libertà espressiva offerta dalle storie criminali di questo tipo per poter continuare a sperimentare con i mezzi utilizzati nel corso dell'esplosione delle avanguardie tedesche della Repubblica di Weimar, compresa l'esplorazione, tramite anche una messinscena estremamente antinaturalistica, di ossessioni e perversioni fin troppo umane, agli antipodi della rassicurante visione cinematografica della classicità hollywoodiana. Una vera e propria versione filmica di quel mondo gotico che aveva segnato nei decenni precedenti la letteratura, europea e non solo, in cui realtà e immaginazione sfumano l'uno nell'altro costantemente e gli edifici, spesso infestati da presenze più o meno fantasmatiche, finiscono per diventare simboli dei traumi da cui i personaggi tentano, con scarso successo di fuggire. 


Questo è l'immaginario che Avati, con molta più decisione anche rispetto al suo capolavoro La casa dalle finestre che ridono (1976), riporta in vita, a partire dall'elegantissimo quanto opprimente bianco e nero con cui dipinge le peregrinazioni dell'anonimo scrittore, la cui presenza quasi kafkiana, resa con grande efficacia da Scotti, da un lato recupera anche il flaneur tipico del giallo all'italiana cui può essere ascritto il sopracitato lungometraggio, ma dall'altro sottolinea come il vero fulcro della narrazione non sia la soluzione del mistero più concreto, bensì quello ancor più complesso e inafferrabile riguardante la natura del reale, la fallacia della percezione umana e i demoni con cui siamo costretti a scendere a patti ogni singolo giorno. La Bologna distrutta dai bombardamenti, così come lo sperduto paesino dell'Iowa e le ormai celeberrime langhe delle valli di Comacchio sempre presenti nel versante più oscuro della filmografia avatiana, rappresentano con notevole forza immaginifica e persino sensoriale la presenza del Male, quello atavico, irrazionale che popola le fiabe, nel mondo quotidiano, sfociando poi in infinite varietà, dall'orrore della guerra e delle sue conseguenze (si pensi alla pratica di vendere i cadaveri caduti in battaglia ai loro cari) fino a un serial killer che trova soddisfazione nel mutilare i genitali femminili e rivendicare la sua "arte" con dei frammenti poetici ellenisti. Per molti potrà risultare straniante l'andamento onirico, privo di risposte certe anche nel finale, scelto dall'autore di Zeder (Pupi Avati, 1983), ma altri non è se non il marchio di fabbrica di quel gotico travestito da thriller metropolitano che il cineasta bolognese trapianta nel milieu che conosce meglio e che si adatta perfettamente allo scavo attraverso la cantina più spaventosa dell'animo umano. Come ogni incubo L'orto americano non si spiega e non si comprende, si abbraccia per poterci risvegliare scossi, ma anche un po' felici di esserne usciti vivi.

venerdì 20 giugno 2025

28 ANNI DOPO: IL SENTIERO DEI NIDI DI INFETTO

Danny Boyle per la maggioranza di chi lo abbia anche solo vagamente sentito nominare è sinonimo di Trainspotting (1996), opera generazionale entrata nell'immaginario collettivo, persino per chi non o ha davvero visto ma magari conosce la sequenza d'apertura sulle note di Lust for Life di Iggy Pop o i meme sul leggendario peggior bagno di Scozia. La carriera del regista britannico però conta anche di molti altri lavori di notevole successo e altrettanta qualità, tra cui spicca un horror post-apocalittico girato quasi secondo gli stilemi di Dogma 95 e capace di ridefinire l'idea di zombie che ancora oggi è onnipresente in tutti i media popolari: 28 giorni dopo (28 Days Later, 2002). A distanza di ben 23 anni Boyle, insieme allo sceneggiatore Alex Garland, torna in quel mondo con un sequel, 28 anni dopo (28 Years Later), che si distacca narrativamente sia dal predecessore, sia dall'altro seguito, 28 settimane dopo (28 Weeks Later, Juan Carlos Fresnadillo, 2007), nel quale non era coinvolto se non in veste di produttore esecutivo. Arrivato da pochi giorni in sala, il film ha già ottenuto un ottimo riscontro da parte della critica, nonostante le aspettative molto alte e un andamento ondivago delle ultime fatiche dell'autore di The Beach (Danny Boyle, 2000).


Protagonista del lungometraggio è il dodicenne Spike (Alfie Williams), che vive con il padre Jamie (Aaron Taylor-Johnson) e la madre gravemente malata Isla (Jodie Comer) all'interno di una comunità dedita ad agricoltura e caccia sull'isola di Lindisfarne, collegata alla Gran Bretagna da uno stretto corridoio di terra praticabile solamente durante la bassa marea. Proprio attraverso questo passaggio gli abitanti del villaggio vanno in cerca di oggetti o cibo sulla terraferma, rischiando la vita poiché da ormai ventotto anni il Regno Unito è in totale quarantena rispetto al resto del mondo a causa della diffusione di una variante di rabbia che ha trasformato gli umani in pericolosi cannibali. Spike viene convinto dal padre ad andare per la prima volta a caccia con lui, così da diventare uomo e, nonostante l'incontro con degli infetti particolarmente pericolosi, tra cui quello che viene definito un alpha, riesce a tornare sano e salvo con l'uomo. Durante i festeggiamenti per la riuscita dell'impresa, però, scopre le bugie del genitore e che sulla terraferma sopravvive un medico, che potrebbe dunque visitare e curare Isla. Per questo motivo il ragazzo, insieme alla madre, parte per un pericolosissimo viaggio alla ricerca del dottore.


In un momento storico votato a requel e legacy sequel, Boyle avrebbe potuto giocare la carta del more of the same, considerando anche la tutt'altro che diminuita potenza emotiva di 28 giorni dopo, ma, al contrario, dopo una sequenza d'apertura che sembra citare alcuni dei suoi epigoni (in particolare L'alba dei morti viventi, in originale Dawn of the Dead, diretto da Zack Snyder nel 2004), fa di 28 anni dopo una creatura completamente nuova e inserita nella contemporaneità. Il totale isolamento britannico, unito alla descrizione dell'ambiente in cui vive Spike, con i suoi connotati preindustriali, rappresenta un chiaro riferimento alla deriva socio-politica inglese, con il ritorno di un forte conservatorismo e pseudo orgoglio nazionalista quale unica, semplicistica risposta alle complesse sfide di un periodo caratterizzato da crisi economiche, perdita di centralità dell'Occidente, pandemie, guerre asimmetriche e così via. Di tutto ciò la Brexit è solamente uno dei sintomi più eclatanti e il regista lo rilegge in controluce, con il resto dell'Europa che decide di imporre all'ex impero la scissione per mero opportunismo, abbandonando tutti i cittadini britannici al virus, esattamente come nel mondo reale questi ultimi hanno preferito voltare le spalle a un'Europa continentale in grave difficoltà.

Questa pur interessante metafora politica però, cui si unisce anche un'ormai archetipica reinterpretazione del rapporto padre-figlio in un mondo apocalittico resa celebre da The Road di Cormac McCarthy, non è il vero fulcro della pellicola, che, in seguito a una festa i cui connotati grotteschi potrebbero riportare alla mente gli eccessi di Trainspotting, ribalta il topos prima descritto trasformandosi in un nuovo Bildungsroman, sempre legato al percorso del protagonista per diventare uomo, ma stavolta grazie alle peregrinazioni tra le lande selvagge dominate dagli infetti insieme alla madre. Come in altri lavori scritti (e diretti) da Garland, l'ormai stantia visione machista anche della formazione e del mito fondativo assume connotati più vicini alla sensibilità attuale, poiché Spike deve certamente imparare a essere forte, coraggioso, capace di uccidere per sopravvivere, ma, ancor di più, deve comprendere che la delusione, il rifiuto e persino la morte sono parti essenziali della vita adulta, dove tutto diventa complesso e stratificato. Gli zombie in fondo non sono altro che persone malate, in maniera non dissimile da Isla, che non può e non deve essere definita dalle sue debilitazioni fisiche e mentali, bensì dalla sua umanità, dalla forza con cui ama le persone più importanti del suo percorso di vita. In un mondo votato alla violenza, in cui si può morire da un momento all'altro, anche essendo ancora vivi biologicamente ma completamente soli, Boyle, attraverso il singolare personaggio del dottor Kelson (Ralph Fiennes), ci ricorda quanto sia fondamentale riscoprire ciò che davvero ci rende umani, vivi, ricchi di pensieri, sentimenti ed emozioni, tanto da riuscire a entrare in rapporto empatico persino con una infetta al momento del parto.


Lo straordinario viaggio di Spike alla riscoperta dell'umanità lasciata per strada, così vicina a quello di tanta narrazione del secondo dopoguerra (da Calvino a Vittorio De Sica passando per Rossellini), non potrebbe avere il medesimo, immenso impatto emozionale senza la ricerca formale messa in pratica dal cineasta britannico. In una sorta di evoluzione del linguaggio fortemente digitale, lo-fi e postmoderno di 28 giorni dopo, l'autore opta ancora una volta per mezzi di ripresa digitali estremamente agili e in bilico tra device professionali e a portata di tutti (gran parte delle scene sono girate attraverso degli Iphone), ma abbandona l'impianto stilistico asciutto e quasi documentaristico precedente in favore di una ricerca estrema dell'immersività, figlia della diffusione del racconto videoludico, del sensismo aptico tipico delle esperienze in VR e del cinema sperimentale di Harmony Korine. Dagli scontri con gli infetti alla scoperta di paesaggi mai visti prima, ogni singolo momento del rito di iniziazione di Spike trova un contrappunto formale ideale, talvolta ottenuto tramite il ricorso a strumenti che richiamano l'analogico, come gli inserti quasi subliminali di found footage proveniente da Enrico V di Laurence Olivier (The Chronicle History of King Henry the Fifth with His Battell Fought at Agincourt in France, 1944) o le lenti anamorfiche che esaltano la maestosità della natura selvaggia che caratterizza il Regno Unito post-apocalittico, in maniera non dissimile da quanto fatto dal già citato Snyder per un altro titolo di genere simile, Army of the Dead (2021), o nel supereroistico L'uomo d'acciaio (Man of Steel, 2013).

28 anni dopo riuscirà a influenzare un intero filone filmico come il suo predecessore? Difficile dirlo a pochi giorni dalla sua distribuzione sul grande schermo. Ciò che è innegabile, d'altro canto, è il riuscito mix di coraggio, personalità e profonda apertura al mondo attuale di un film che non può lasciare indifferenti.