domenica 25 maggio 2025

FINAL DESTINATION BLOODLINES: MEMENTO MORI

La storia dell'arte, in tutte le sue espressioni, è ricca di momenti in cui a disastri umani come guerre logoranti, epidemie o gravi crisi economiche corrispondono esplosioni creative particolarmente rilevanti. Si pensi in tal proposito al Rinascimento italiano o al Barocco secentesco, proliferato in un contesto contrassegnato da un aumento esponenziale della mortalità. Un milieu che non può non essere collegato all'abbondanza di dipinti dedicati al sempiterno tema del "memento mori" coniato in epoca romana e che torna a fare capolino nell'immaginario collettivo quantunque il fiato sul collo del tristo mietitore. In una non dissimile situazione nasce anche il fortunato franchise di Final Destination, il cui primo capitolo anticipa di pochi mesi lo spartiacque della caduta delle Torri Gemelle. Ecco che in un 2025 all'insegna di guerre sempre più vicine anche all'Occidente, i postumi ancora tutti da decifrare di una pandemia e incessanti cambiamento socio-culturali fa capolino una nuova iterazione della saga, Final Destination Bloodlines, nata da un soggetto di John Watts ma diretto dal duo Zach Lipovsky/Adam Stein. Nonostante la generale difficoltà delle sale e la distanza siderale per le nuove generazioni dal precedente capitolo (Final Destination 5, Steve Quale, 2011), il film sta riscuotendo un notevole successo al box office, corroborato da recensioni entusiastiche sia negli Stati Uniti che nel resto del mondo.


Dopo un incipit ambientato nel 1968, la pellicola sposta la sua attenzione sul presente e sull'autrice del sogno con cui si apre, la studentessa Stefani (Kaitlin Santa Juana), che proprio a causa di questo incubo ricorrente sta mettendo a repentaglio la propria brillante carriera universitaria. Per riuscire a venirne a capo decide di tornare a casa, dove scopre che la donna del passato che vede ogni notte è in realtà sua nonna materna Iris (Gabrielle Rose), che non ha mai conosciuto a causa di problemi mentali che avevano già traumatizzato l'infanzia della madre di Stefani, Darlene (Rya Kihlstedt), e dell'amato zio Howard (Alex Zahara). Quando la protagonista incontra finalmente Iris involontariamente innesca il piano della Morte per liberarsi della sua intera famiglia.


Alzi la mano chi all'annuncio di un nuovo Final Destination aveva pensato all'ennesimo requel a cui ci sta abituando con disarmante ripetitività Hollywood con un mix di vecchi e nuovi protagonisti? Ecco io sono il primo a essersi sbagliato di grosso. Certo Bloodlines, come in parte suggerisce il titolo, possiede alcune connessioni con il resto della saga e la cronologia del racconto si sposta tra passato e presente gettando nuova luce anche sulla più estesa mitologia inaugurata nel 2000, ma è tutto rilegato ai margini, quelli che fanno piacere ai fan di vecchia data ma senza che gli venga, metaforicamente, gratta la pancia per 110 minuti. In tutt'altro che banale controtendenza Lipovsky e Stein, a partire da una sceneggiatura firmata da Guy Busick e Lori Evans Taylor, danno vita a un sequel che mantiene i punti cardine del franchise, compresa la tendenza a raccontare le vicende di un gruppo di protagonisti completamente nuovo, rafforzando però un aspetto che spesso è stato sottovalutato, ovvero la messa in scena di personaggi per cui il pubblico provi empatia, quella vera. A differenza di quanto afferma la vulgata sul filone slasher, cui chiaramente è debitore il lungometraggio, Stefani e la sua famiglia sono esseri umani a tutto tondo, in parte corrispondenti ad alcuni archetipi del new horror inaugurato dai vari Hooper, Craven o Raimi, ma perlopiù umanizzati al punto in cui, di fatto, quelle linee di sangue espresse nel titolo si riferiscono soprattutto alla grande disamina di dinamiche familiari che qualunque spettatore può sentire vicine. Persino nei momenti più (auto)ironici e over the top il pubblico è portato da scrittura e interpretazioni attoriche a sperare che questo grande nucleo famigliare, già messo a dura prova da traumi infantili, dolorose separazioni e problemi di comunicazione, alla fine riesca ad avere la meglio sulle trame ordite dalla Morte. Ciononostante è altrettanto innegabile che una cospicua percentuale di piacere dalla visione derivi dalla straripante fantasia con cui vengono fatti fuori uno a uno i personaggi in scena, grazie anche a un distacco quasi brechtiano che, istantaneamente, prende il sopravvento non appena il meccanismo cinicamente beffardo dell'uccisione spettacolare si innesca. Trovare un equilibrio tra la volontà di raccontare esseri umani con cui entrare in contatto emotivamente e quella di divertire, come in una sorta di luna park, gli spettatori con una caricatura catartica del memento mori non è per niente semplice, come dimostra, ad esempio, Terrifier 2 (Damien Leone, 2022), eppure Bloodlines vi riesce. Non senza semplificazioni evitabili o scivoloni che neanche il sempreverde sarcasmo può nascondere (si veda la scena ambientata dopo il funerale di un certo personaggio che supera davvero il limite anche del grottesco o dello humour nero), così come non vi sono particolari vezzi formali che possano con il passare degli anni mascherare l'inevitabile invecchiamento di una CGI già oggi non al top.


Al netto di una perfezione che non gli appartiene, il film riesce in pieno nei propri obiettivi, compreso quello di esorcizzare per un paio di ore scarse l'inquietudine crescente in cui viviamo o anche solo di farci provare un sincero stupore dinanzi all'inventiva delle morti, come al cospetto di un gioco di prestigio che anche stavolta ce l'ha fatta sotto al naso.

P.s. c'è chi ha dovuto asciugare almeno una lacrima per la scena (improvvisata) con cui Tony Todd si congeda dal pubblico, diegetico e non, e chi mente.

domenica 4 maggio 2025

COMPANION: GOOD GUYS STAB YOU IN THE FRONT

In un periodo transitorio come quello attuale per il cinema, sopravvissuto alla fine del trend dei cinecomics, così come all'ennesima morte annunciata dovuta al COVID-19 e alla contestuale esplosione dello streaming casalingo, vedere una major produrre e distribuire su larga scala opere con budget ristretti e lontane da qualsivoglia franchise appare quasi utopia, eppure quest'anno Warner Bros, probabilmente quella più in difficoltà tra le grandi potenze hollywoodiane, ha portato sugli schermi di tutto il mondo Companion. Diretto dall'esordiente al lungometraggio Drew Hancock, motivo per cui la campagna marketing ha sottolineato soprattutto la presenza nelle vesti di produttore del fautore di Barbarian Zach Cregger, il film ha ricevuto reazioni entusiastiche da parte della critica, specie negli Stati Uniti, e un discreto successo al botteghino, considerando peraltro che negli ultimi tempi quasi tutte le produzioni con elementi vagamente fantascientifiche stanno faticando e non poco.


Ambientata in un futuro non troppo distante dal nostro presente, la pellicola la piccola vacanza a casa di un ambiguo quanto ricco russo di nome Sergey (Rupert Friend) della coppia formata da Iris (Sophie Thatcher) e Josh (Jack Quaid). Nella lussuosa casa del magnate europeo i due trovano anche i migliori amici del ragazzo, la scontrosa Kat (Megan Suri) e gli innamoratissimi Eli (Harvey Guillén) e Patrick (Lukas Gage). Quello che sembrerebbe un semplice weekend di relax, lontano dalle fatiche della quotidianità, viene rivoluzionato da due eventi concatenati: il tentativo di stupro da parte di Dimitry nei confronti di Iris e la rivelazione che questa e Patrick sono in realtà androidi accompagnatori.


Già dalla sequenza introduttiva, quella che mostra come si sarebbero conosciuti i protagonisti, Companion mette in chiaro la propria natura estremamente e volutamente derivativa, dato lo spirito marcatamente postmoderno con cui affronta sia i generi, sia i temi al centro del racconto. La voce over di Iris, il suo abbigliamento da fidanzata modello secondo i canoni borghesi americani e persino i colori pastello di fotografia e scenografia mettono in luce una lunga serie di riferimenti ipertestuali topici per il panorama filmico a cavallo tra anni Novanta e Duemila (fase storica in cui il postmodernismo ha trovato il proprio canto del cigno nell'immaginario mainstream) e per le riflessioni da proporre allo spettatore, da La donna perfetta (The Stepford Wives, Frank Oz, 2004) al periodo pulp di Guy Ritchie, passando per Her (Spike Jonze, 2013) e persino opere meno conosciute come Virtual Sexuality (Nick Hurran, 1999) e Dovevi essere morta (Deadly Friend, Wes Craven, 1986). Altrettanto postmoderna è l'ironia, spesso molto caustica e amara, che permea la narrazione, probabilmente indispensabile oggi per rendere digeribili al grande pubblico i momenti più oscuri e disturbanti della vicenda, ma che al contempo esalta alcuni degli interpreti (in particolare Quaid) e affossa appunto la problematizzazione delle riflessioni poste da Hancock. Le montagne russe costanti tra incursioni nel lato più oscuro dell'umanità e del suo utilizzo della tecnologia e le battute dei personaggi, infatti, da un lato avvicinano lo stile narrativo a quello dei meme, attirando in tal senso lo spettatore Millennial o Gen-Z, dall'altro depotenziano la profondità della portata poetica del lungometraggio, specie se si considera che le intuizioni di cui si fregia non sono certo nuove per chiunque abbia un minimo di dimestichezza con l'audiovisivo.

Ciononostante il mix di generi orchestrato dal regista statunitense si adatta efficacemente alla volontà di mettere in scena certe dinamiche tossiche che imperversano tra le coppie, di qualunque orientamento, che nascono però in primis dalle insicurezze che vive il maschio in una società in trasformazione. Il ruolo di potere incontrastato che ha sempre rivestito l'uomo viene oggi, fortunatamente, ridiscusso e questo porta a una costante ricerca da parte di molti maschi, anche molto giovani e istruiti, di relazioni basate non sulla reciprocità, bensì sulla soddisfazione egoistica del proprio bisogno di controllo e, conseguentemente, sulla sensazione di essere il centro di gravità permanente dell'altro. Un tale concentrato di narcisismo, mancanza di empatia e pratiche di gaslighting viene evidenziato nella pellicola dalla scelta di Josh di abbandonare ogni tentativo di trovare una compagna compatibile in favore di una artificiale, da lui modellata e priva di autonomia vera e propria. Si pensi ad esempio a come ne possa modificare le capacità intellettive o alla sequenza flashback in cui il giovane, subito dopo aver configurato Iris, come primo utilizzo pensa immediatamente al sesso. Altrettanto importante nella rappresentazione di suddette dinamiche di potere all'interno della coppia è la caratterizzazione del personaggio dal volto di Jack Quaid come "bravo ragazzo", quello che noi italiani purtroppo abbiamo sentito fin troppo spesso affibbiato a colpevoli di femminicidi brutali e totalmente premeditati. Josh è realmente convinto di essere nel giusto da un punto di vista etico, poiché figlio di secoli di cultura patriarcale che ne ha difeso le pretese sul prossimo, specie se donna, ma tutto questo non potrebbe forse portare alla scia di uccisioni e violenze presenti nel film senza un'ulteriore componente: la profonda crisi economica e sociale del mondo post-capitalista. In fondo perché un trentenne codardo, immaturo e di classe media come il protagonista/villain dovrebbe mai pensare di mettere in moto il piano criminale concernente Dimitry? Niente di tutto questo gli sarebbe mai passato per l'anticamera del cervello senza un contesto di enorme decadimento del benessere economico e dei connessi equilibri sociali che tutti noi stiamo vivendo a partire dal famigerato crollo delle borse mondiali del 2008. Una condizione di costante incertezza verso il futuro, improvvisazione interminabile per riuscire a portare il pane in tavola in qualche monolocale il cui affitto costa quasi quanto quel tanto agognato stipendio derivato da un impiego rigorosamente a tempo determinato. I Josh sono evidentemente figli anche di questa situazione, oltre che del tradizionale patriarcato messo finalmente in discussione dalle nuove generazioni, e questo lo si può evincere anche da un personaggio quale Eli, certamente più positivo, visto l'amore sincero che prova verso Patrick, ma che accetta di far parte delle orchestrazioni dell'amico pur di avere la sua fetta di denaro. In barba anche al politically correct odierno che non vorrebbe mai una figura queer cadere nelle tentazioni del lato oscuro della moralità.


Chissà cosa sarebbe potuto essere Companion tra le mani di un profondo conoscitore delle meccaniche di genere come Carpenter o, restando tra le fila di autori più giovani e attivi nell'oggi, Leigh Whannell, che con L'uomo invisibile (The Invisible Man, 2020) aveva già affrontato le medesime tematiche, ma con ben altra potenza immaginifica, conoscenza formale del mezzo e pregnanza. Al netto di questi what if ci godiamo un film molto godibile, recitato magnificamente dalla coppia protagonista e che può aiutare una fascia di pubblico non così avvezza a riflettere su ciò che ha intorno o persino dentro casa.