La storia dell'arte, in tutte le sue espressioni, è ricca di momenti in cui a disastri umani come guerre logoranti, epidemie o gravi crisi economiche corrispondono esplosioni creative particolarmente rilevanti. Si pensi in tal proposito al Rinascimento italiano o al Barocco secentesco, proliferato in un contesto contrassegnato da un aumento esponenziale della mortalità. Un milieu che non può non essere collegato all'abbondanza di dipinti dedicati al sempiterno tema del "memento mori" coniato in epoca romana e che torna a fare capolino nell'immaginario collettivo quantunque il fiato sul collo del tristo mietitore. In una non dissimile situazione nasce anche il fortunato franchise di Final Destination, il cui primo capitolo anticipa di pochi mesi lo spartiacque della caduta delle Torri Gemelle. Ecco che in un 2025 all'insegna di guerre sempre più vicine anche all'Occidente, i postumi ancora tutti da decifrare di una pandemia e incessanti cambiamento socio-culturali fa capolino una nuova iterazione della saga, Final Destination Bloodlines, nata da un soggetto di John Watts ma diretto dal duo Zach Lipovsky/Adam Stein. Nonostante la generale difficoltà delle sale e la distanza siderale per le nuove generazioni dal precedente capitolo (Final Destination 5, Steve Quale, 2011), il film sta riscuotendo un notevole successo al box office, corroborato da recensioni entusiastiche sia negli Stati Uniti che nel resto del mondo.
Dopo un incipit ambientato nel 1968, la pellicola sposta la sua attenzione sul presente e sull'autrice del sogno con cui si apre, la studentessa Stefani (Kaitlin Santa Juana), che proprio a causa di questo incubo ricorrente sta mettendo a repentaglio la propria brillante carriera universitaria. Per riuscire a venirne a capo decide di tornare a casa, dove scopre che la donna del passato che vede ogni notte è in realtà sua nonna materna Iris (Gabrielle Rose), che non ha mai conosciuto a causa di problemi mentali che avevano già traumatizzato l'infanzia della madre di Stefani, Darlene (Rya Kihlstedt), e dell'amato zio Howard (Alex Zahara). Quando la protagonista incontra finalmente Iris involontariamente innesca il piano della Morte per liberarsi della sua intera famiglia.
Alzi la mano chi all'annuncio di un nuovo Final Destination aveva pensato all'ennesimo requel a cui ci sta abituando con disarmante ripetitività Hollywood con un mix di vecchi e nuovi protagonisti? Ecco io sono il primo a essersi sbagliato di grosso. Certo Bloodlines, come in parte suggerisce il titolo, possiede alcune connessioni con il resto della saga e la cronologia del racconto si sposta tra passato e presente gettando nuova luce anche sulla più estesa mitologia inaugurata nel 2000, ma è tutto rilegato ai margini, quelli che fanno piacere ai fan di vecchia data ma senza che gli venga, metaforicamente, gratta la pancia per 110 minuti. In tutt'altro che banale controtendenza Lipovsky e Stein, a partire da una sceneggiatura firmata da Guy Busick e Lori Evans Taylor, danno vita a un sequel che mantiene i punti cardine del franchise, compresa la tendenza a raccontare le vicende di un gruppo di protagonisti completamente nuovo, rafforzando però un aspetto che spesso è stato sottovalutato, ovvero la messa in scena di personaggi per cui il pubblico provi empatia, quella vera. A differenza di quanto afferma la vulgata sul filone slasher, cui chiaramente è debitore il lungometraggio, Stefani e la sua famiglia sono esseri umani a tutto tondo, in parte corrispondenti ad alcuni archetipi del new horror inaugurato dai vari Hooper, Craven o Raimi, ma perlopiù umanizzati al punto in cui, di fatto, quelle linee di sangue espresse nel titolo si riferiscono soprattutto alla grande disamina di dinamiche familiari che qualunque spettatore può sentire vicine. Persino nei momenti più (auto)ironici e over the top il pubblico è portato da scrittura e interpretazioni attoriche a sperare che questo grande nucleo famigliare, già messo a dura prova da traumi infantili, dolorose separazioni e problemi di comunicazione, alla fine riesca ad avere la meglio sulle trame ordite dalla Morte. Ciononostante è altrettanto innegabile che una cospicua percentuale di piacere dalla visione derivi dalla straripante fantasia con cui vengono fatti fuori uno a uno i personaggi in scena, grazie anche a un distacco quasi brechtiano che, istantaneamente, prende il sopravvento non appena il meccanismo cinicamente beffardo dell'uccisione spettacolare si innesca. Trovare un equilibrio tra la volontà di raccontare esseri umani con cui entrare in contatto emotivamente e quella di divertire, come in una sorta di luna park, gli spettatori con una caricatura catartica del memento mori non è per niente semplice, come dimostra, ad esempio, Terrifier 2 (Damien Leone, 2022), eppure Bloodlines vi riesce. Non senza semplificazioni evitabili o scivoloni che neanche il sempreverde sarcasmo può nascondere (si veda la scena ambientata dopo il funerale di un certo personaggio che supera davvero il limite anche del grottesco o dello humour nero), così come non vi sono particolari vezzi formali che possano con il passare degli anni mascherare l'inevitabile invecchiamento di una CGI già oggi non al top.
Al netto di una perfezione che non gli appartiene, il film riesce in pieno nei propri obiettivi, compreso quello di esorcizzare per un paio di ore scarse l'inquietudine crescente in cui viviamo o anche solo di farci provare un sincero stupore dinanzi all'inventiva delle morti, come al cospetto di un gioco di prestigio che anche stavolta ce l'ha fatta sotto al naso.
P.s. c'è chi ha dovuto asciugare almeno una lacrima per la scena (improvvisata) con cui Tony Todd si congeda dal pubblico, diegetico e non, e chi mente.