lunedì 23 settembre 2024

SMILE: UNA SETTIMANA DI ORDINARIA SMILING DEPRESSION

Grazie alla visibilità procurata da piattaforme come Youtube i cortometraggi possiedono da almeno un decennio una platea ben più ampia rispetto al passato, tanto da portare un numero considerevole di registi a trasporre le proprie creazioni divenute virali in lungometraggi distribuiti da grandi studios, come nel caso di Lights Out, diretto da David F. Sandberg nel 2016 in quanto espansione dell'omonimo corto risalente a tre anni prima. Simile iter produttivo investe anche Smile, espansione e sequel a firma di Parker Finn del precedente Laura Hasn't Slept (2020). Il film, arrivato nelle sale di tutto il mondo nel 2022 si rivela un inaspettato successo commerciale, con incassi paragonabili a quelli di blockbuster da centinaia di milioni di dollari a fronte di un budget inferiore ai venti, accolto anche da discrete recensioni, che forse, almeno a mio avviso, sono rimaste fin troppo in superficie rispetto a un lavoro piuttosto stratificato, pur nelle sue imperfezioni.


La terapeuta Rose Cotter (Sosie Bacon), protagonista della pellicola, sembra la perfetta esemplificazione della donna in carriera, almeno fino a quando non riceve l'incarico di soccorrere una dottoranda, Laura Weaver (Caitlin Stasey), in preda a improvvise allucinazioni. La paziente asserisce di vedere, in seguito al suicidio davanti ai suoi occhi di un professore, un'entità assumere l'aspetto di diverse persone, anche a lei conosciute e già defunte, per poi minacciarla mentre sorride nel più inquietante dei modi. La seduta si tramuta in tragedia quando la giovane, dopo una breve lotta contro qualcosa di invisibile, rivolge un ghigno spaventoso a Rose per poi tagliarsi la gola con un frammento di vaso. Da quel momento la dottoressa, comprensibilmente turbata da quanto accaduto, inizia a essere affetta dalle medesime visioni di Laura, che la isolano dalle persone a cui tiene di più, compreso il compagno Trevor (Jessie Usher). L'unico ad aiutarla, nonostante l'improbabilità della situazione, è l'ex fidanzato e poliziotto Joel (Kyle Gallner).


Espandere concetto e sceneggiatura alla base di un'opera di una manciata di minuti non è mai semplice. Utilizzando una comparazione sportiva non è un lavoro troppo distante dal passaggio dai cento metri alla marcia, per cui un atleta dovrebbe stravolgere completamente metodo di allenamento, abbandonare l'idea di concentrare tutte le proprie energie in un breve scatto in favore della resistenza sul lungo periodo e in tal senso modificare anche la propria forma mentis agonistica. Ecco perché Smile, come molti suoi predecessori, vive talvolta di episodicità, di ripetizione di taluni meccanismi che sul breve funzionano in maniera ben più efficace rispetto a quanto può accadere in una marcia filmica. Detto ciò la trasposizione a lungometraggio dell'intuizione dell'esordiente Finn mostra, però, una stratificazione di letture e significanti degna del migliore cinema di genere, quello in cui il pubblico, a seconda del proprio background culturale, può comunque trovare una traccia che ne soddisfi il palato. Sebbene il soggetto ricordi quasi pedissequamente il capolavoro di David Robert Mitchell It Follows (2014) il regista rielabora il calco di superficie adattandolo a un contesto generale completamente diverso: i personaggi hanno superato l'adolescenza ormai da un bel pezzo, la provincia più reietta degli States lascia il posto a un milieu tipicamente altoborghese ed è rimarcata anche la temporalità contemporanea in cui si svolge il racconto, dato che il vero fulcro dello stesso è la simbologia legata all'entità sorridente. Anche nella vicenda di Rose vi sono molti degli archetipi della fiaba e del viaggio dell'eroe a cui attingeva Mitchell per mostrare la maturazione di Jay, recuperando a propria volta l'impalcatura poetica craveniana, come ad esempio la discesa agli inferi e il terrible place rappresentato dalla casa dell'infanzia, ma l'autore fa di questo percorso atemporale una sineddoche di un fenomeno estremamente attuale e figlio del nostro tempo, la cosiddetta "smiling depression". Termine che designa il particolare stato, molto diffuso, nel quale vive chi pur accusando gran parte dei sintomi tipici della depressione li nasconde, anche solo parzialmente, in occasioni pubbliche adducendo una felicità totalmente illusoria e artificiosa. Un comportamento figlio di quella strisciante imposizione culturale prettamente contemporanea per cui l'unico modo attraverso il quale un individuo può trovare accettazione sociale è mostrarsi vincente, realizzato sia nella carriera, sia nel privato e costantemente in grado di tenere nel palmo delle proprie mani qualunque difficoltà. Uno spaventoso horror vacui mascherato da felicità che trova una notevole rappresentazione metaforica negli altrettanto perturbanti, nel senso freudiano del termine, sorrisi con cui si manifesta l'essere che perseguita Rose e tutti coloro che l'hanno preceduta, i quali, nel momento in cui cercano di esprimere liberamente il disagio provato a persone idealmente fidate, ricevono unicamente sospetto, incomprensione, disgusto e altre reazioni negative, come quelle di globuli bianchi che tentano di isolare tutto ciò che potrebbe minare il perfetto equilibrio dell'organismo sano. La malattia mentale, la devianza, il dolore, la sofferenza di qualunque tipo sono per la nostra società semplicemente dei virus da eliminare al fine di difendere la maschera di ostinata salute e ineluttabile felicità che propaganda come nelle peggiori distopie fantascientifiche e Fin lo ritrae con la propria cinepresa con la forza immaginifica di chi, al netto di singhiozzi figli probabilmente di poca esperienza, sa sfruttare gli strumenti più potenti della grammatica filmica, dall'efficacia del dosaggio sonoro, sia esso rumoristico o musicale, fino a movimenti di macchina che amplificano la sensazione di disagio della protagonista e di chiunque viva sulla propria pelle l'esclusione sociale, facendo propria la lezione del coevo cinema dell'orrore maggiormente riuscito, come il già citato It Follows ma anche The Witch (Robert Eggers, 2015), Hereditary (Ari Aster, 2018) o Malignant (James Wan, 2021).


Smile vive, in definitiva, molte delle contraddizioni che contrassegnano il cinema, specie mainstream, del terzo millennio, in cui l'esasperazione del postmodernismo e l'estemporaneità minano il risultato finale ma è davvero encomiabile la perizia formale con cui un cineasta esordiente ricorre al genere per dare forma a un malessere tanto etereo quanto impattante nella vita di molti tra noi spettatori, assolvendo a una delle funzioni ataviche dello spavento su schermo e che la continua ricerca della perfezione attuale, la stessa messa alla berlina dal film, porta tanti cinefili e recensori a liquidare con pareri superficiali come i sorrisi del mostro mutaforma. 

mercoledì 11 settembre 2024

THE WELL: UN AMERICANO A ROMA

Ciclicamente all'uscita, piuttosto miracolosa e sporadica, in sala di un horror diretto da un italiano stampa e appassionati gridano al ritorno ai fasti di un tempo, quando Cinecittà rivaleggiava con Hollywood per incassi e i drive-in degli States erano invasi dai capolavori di Mario Bava, Riccardo Freda, Sergio Martino, fino all'arrivo di Dario Argento, capace di travalicare anche fuori dall'Europa l'idea che queste produzioni appartenessero a una serie b. Inutile sottolineare come manchino in primis le condizioni istituzionali e produttive per far sì che tornino quei tempi ma già quindici anni fa qualcuno ci sperava all'uscita di Shadow (2009), diretto dal leader dei Tiromancino Federico Zampaglione con ottimi risultati artistici e buoni responsi anche internazionali. Quest'anno il musicista torna al suo amore per il cinema dell'orrore con The Well, che dopo essere stato presentato al prestigioso Festival di Sitges, riesce a trovare una discreta distribuzione sugli schermi nostrani incoraggiata da buonissime recensioni ma priva di altrettanto supporto da parte del pubblico, visti gli incassi e i tanti commenti negativi diffusi sul web.



La protagonista del film, Lisa (Lauren LaVera), è una restauratrice, figlia di uno dei professionisti più affermati nel settore (Giovanni Lombardo Radice), chiamata nella campagna laziale dalla duchessa Emma Malvisi (Claudia Gerini) per ridare vita a un dipinto di notevole valore in tempi strettissimi. Durante il viaggio in autobus verso la piccola località la giovane stringe amicizia con un gruppo di escursionisti, che finiscono, durante una notte in tenda, tra le grinfie di uno psicopatico che li tiene in gabbia come animali. Nel frattempo Lisa inizia ad avere strane e inquietanti visioni ogni volta che lavora al quadro, connesse all'altrettanto disturbante racconto sulle origini dell'opera narratole da Giulia (Linda Zampaglione), figlia tredicenne della contessa.



Leggendo recensioni ma soprattutto pareri su The Well mi aspettavo un vero e proprio ritorno alle atmosfere, alla forma e alla tipologia di racconto per immagini che rendevano unici i gotici e i gialli della cinematografia nazionale tra anni Sessanta e Settanta. Mai come in questo caso sembra che molti abbiano commentato un altro film e sarebbe interessante recensire la ricezione dello stesso ma sarà per un'altra volta. Nonostante alcune strizzate d'occhio e omaggi molto evidenti a quella stagione precedentemente menzionata Zampaglione, esattamente come accadeva in Shadow, mette in mostra un impianto formale molto vicino all'horror americano di inizio millennio, in cui la macchina da presa segue le vicende con un voyeurismo tale da non distogliere il proprio sguardo neanche dinanzi alle scene più truculente e sadiche, creando un funzionale parallelo con il reportage di guerra che portava nelle case di tutti noi le incredibili immagini di orrore tutt'altro che fantastico provenienti dai combattimenti in Afghanistan e Iraq. Certamente la scelta di suddividere la narrazione per buona parte del minutaggio in due linee parallele fa sì che in una di esse riescano a risaltare gli elementi di ascendenza gotica, come ad esempio la villa antica e piuttosto austera in cui vivono i Malvisi o un pre-finale che cita Suspiria (Dario Argento, 1977), ma l'occhio del cineasta romano non adotta mai soluzioni diverse rispetto a quelle dell'altro filone del racconto, più smaccatamente accostabile al torture porn inaugurato da Saw (James Wan, 2004). Manca completamente l'idea di matrice operistica per cui la costruzione della psicologia e dei rapporti tra i personaggi funzioni da raccordo in recitativo prima di mettere in scena le arie rappresentate da omicidi estremamente estetizzanti e stilizzati, ricchi di virtuosismi visivi e ulteriori sottolineature da parte della colonna musica, così come il ricorso a tonalità antinaturalistiche o i famosissimi zoom, marchio di fabbrica per il lato più superficiale di quel cinema. L'autore, al contrario, ricorre costantemente a movimenti di macchina di sicura efficacia ma per raggelare il sangue dello spettatore attraverso la resa particolarmente convincente di effetti speciali prostetici, che sfidano la capacità di sostenere la visione dall'altro lato della quarta parete, quella pulsione sadica dell'appassionato del genere a cui allude Carol Clover nei suoi iconici scritti su slasher e rape and revenge.



Tramontato però anche il fervore di crudeltà estrema dei primi anni Duemila a cui Zampaglione si ispira cosa resta dunque da dire con tale idea di orrore? Quello che si potrebbe definire horror for horro sake, un lavoro che, in questo ben distante dal già citato Shadow e la sua critica antimilitarista, si pone l'obiettivo di trasportare il pubblico all'interno di un'ideale giostra a tema orrorifico, che spazia principalmente in territori statunitensi per poi piazzare qua e là qualche omaggio italico come farebbe un turista tra i resti del passato glorioso del Belpaese. Persino la scelta di ambientare la pellicola negli anni Novanta, il decennio che ha di fatto chiuso l'esperienza della filmografia di genere italiana, e il finale che decostruisce e distrugge alcuni capisaldi della mitologia gotica sembra affermare proprio questo: quell'horror italiano è morto e al massimo qualcuno può di tanto in tanto succhiarne via qualche goccia di sangue per scopi altri.

venerdì 6 settembre 2024

TRAP: SHYAMALAN CI RICORDA L'IMPORTANZA DELLA FORMA

Negli ultimi anni si è diffuso tra gli appassionati di cinema un certo malcontento nei confronti dell'offerta proveniente dagli Stati Uniti, accusata di adagiarsi su una mediocritas tutt'altro che aurea e una mancanza di idee che si manifesta in una lunga serie di remake, reboot, sequel, requel ecc. Quanto è singolare che in questo panorama tra i registi che più dividono vi sia M. Night Shyamalan, che nonostante una carriera ormai quasi trentennale ha sfornato solamente due sequel e porta avanti una visione filmica estremamente personale e riconoscibile. Il 2024 vede il suo ritorno alla regia con Trap, che potendo contare su un budget di medio livello può dirsi un successo commerciale ma spacca nettamente i pareri, sia degli spettatori comuni, sia della critica.


Il film vede Cooper (Josh Hartnett), pompiere e padre come tanti altri, accompagnare la figlia Riley (Ariel Donoghue) all'attesissimo concerto di Lady Raven (Saleka Shyamalan). Quello che scopre dopo una manciata di canzoni è che l'evento nasconde una trappola ordita dall'FBI per catturare il macellaio, un serial killer colpevole di più di dieci omicidi e che si cela proprio dietro il volto del protagonista.


Trap fin dal titolo mette in chiaro la connivenza tra due generi raramente accostati: il thriller di matrice hitchcockiana e il musical, in cui il commento sonoro assume la stessa importanza narrativa di quello che nel lessico operistico si definisce recitativo. Per questo motivo Shyamalan, che fin dai tempi de Il sesto senso (The Sixth Sense, 1999) aveva abbracciato la riflessione sulle possibilità dello sguardo attraverso l'uso della macchina da presa, pone una doppia sfida al pubblico, ovvero in prima istanza quella di identificarsi in piena consapevolezza con un assassino, successivamente con le figure femminili che tentano di fermarlo, tra cui una popstar. In passato già era accaduto che dei registi sfruttassero la grammatica filmica, come l'insistenza sui primi piani ad esempio, per connettere emotivamente lo spettatore con un personaggio razionalmente e moralmente ripugnante (si pensi ad Hannibal Lecter sia sul grande che sul piccolo schermo) ma l'autore di origini indiane mette alla prova l'efficacia di tali strumenti e la capacità di chi osserva di scindere tra ragione e sentimento, cervello e stomaco, esattamente come Cooper, che in una sequenza a casa sua afferma apertamente di vivere un volontario sdoppiamento tra la vita domestica e pubblica e quella del macellaio, grazie a cui riesce a mantenere un irreale equilibrio tra istinti omicidi e rispettabilità, oltre a un profondo amore verso i figli espresso fino all'ultimo. Per chi si trova dall'altra parte della quarta parete aderire al punto di vista dell'uomo significa anche sperimentare questa dialettica interiore tipica degli assassini sociopatici, una deriva estrema di un fenomeno di dissipazione dell'empatia da cui è affetta l'intera nostra contemporaneità, come diventa evidente a più riprese nella pellicola: dai commenti totalmente fuori luogo dei fan alla live sui social in cui Lady Raven chiede aiuto perché qualcuno liberi il ragazzo imprigionato da Cooper fino all'ossessione dell'addetto al merchandising per il serial killer e le sue imprese, visto alla stregua di un eroe.

La stesso distanziamento empatico vissuto tra le diverse generazioni che assistono al concerto. Un evento che, oltre a citare altri maestri della suspense ripresa in diretta come il già citato Hitchcock ma anche Brian De Palma, viene girato con il linguaggio proprio della musica dal vivo e così evidenzia la totale mancanza di sintonia e, conseguentemente, la divergenza di sguardo tra le adolescenti che vivono con sincera partecipazione il live e i genitori che le accompagnano, chiaramente distaccati emotivamente e intellettualmente da ciò che li circonda. L'insistenza della cinepresa su una moltitudine di schermi però ricontestualizza l'amato split-screen dell'autore di Omicidio in diretta (Snake Eyes, Brian De Palma, 1998) per denunciare la distanza che si crea anche tra le fan e il loro idolo, di cui non riescono realmente a percepire la dimensione umana e pertanto istintivamente posizionano costantemente un filtro tra di essi, lo stesso peraltro a cui spesso ricorrono per dare un senso maggiormente comprensibile a un reale la cui percezione viene sempre più ovattata da chi vorrebbe proteggerli nei riguardi del male che il mondo nasconde. Esattamente ciò che fa Cooper per Riley, con la sola differenza che in questo caso è il mostro dentro di sé la minaccia.


Tutto questo e molto altro in Trap non si evince attraverso interminabili conversazioni o monologhi stantii, bensì grazie a ogni singolo movimento di macchina, stacco di montaggio, sovrapposizione visivo-sonoro che Shyamalan mette in scena, ricordandoci che il cinema, come tutte le arti, è soprattutto una questione di forma espressiva e di abilità nel manipolare l'occhio del fruitore. Se non riusciamo ad apprezzare un affabulatore in grado di riportarci al senso più profondo e primigenio della rappresentazione di sé forse dovremmo interrogarci almeno quanto Cooper.

lunedì 2 settembre 2024

THE FIRST SLAM DUNK: BILDUNGSROMAN E REMAKE DA MANUALE

C'era una volta (boomer nostalgico mode on) un mondo in cui Netflix non esisteva e il panorama anime si distribuiva sui palinsesti televisivi, segnando un appuntamento orario imperdibile e irripetibile perché il bingewatching era un concetto estraneo anche alla fantascienza e chi non si sintonizzava all'orario giusto davanti a quell'ingombrante tubo catodico rischiava di perdersi la trasformazione in super saiyan di Goku o la battaglia finale tra Seiya/Pegasus e il corrotto gran sacerdote delle dodici case. In questo contesto molti come me si sono innamorati di Slam Dunk (Nobutaka Nishizawa, 1993-1996), anime a tema sportivo tratto dall'omonimo manga ideato da Takehiko Inoue tra 1990 e 1996 in cui la testa calda Hanamichi Sakuragi si unisce a un altrettanto colorito team di basket liceale arrivando a sfiorare il titolo nazionale. A distanza di quasi venti anni dalla conclusione del fumetto il suo stesso autore, dopo una gestazione quindicennale, ritorna a quell'universo narrativo che ne ha lanciato la carriera scrivendo e dirigendo The First Slam Dunk (2022), film campione di incassi in Giappone universalmente acclamato dalla critica di tutto il mondo.


La pellicola adatta per il grande schermo uno dei momenti più importanti dell'originale cartaceo, la partita del campionato nazionale tra lo Shohoku, squadra dei protagonisti, e il Sannoh, istituto superiore con una tradizione cestistica invidiata in tutto il paese. Il match viene intervallato da una serie di flashback e momenti intimi legati a tutti i giocatori del team sfavorito, con particolare attenzione però per Ryota Miyagi (Shugo Nakamura), playmaker del quale viene rivelato per la prima volta il passato tormentato dalla perdita del padre e dell'amato fratello maggiore.


Viviamo anni estremamente legati al passato , specie per alcune fasce di età, motivo per cui cinema e serialità cavalcano quest'onda sfornando una moltitudine di remake, reboot, requel, sequel spirituali e chi più ne ha, più ne metta. L'idea di questo The First Slam Dunk potrebbe far pensare all'ennesimo tentativo di guadagnare sulla nostalgia dei Millennials ma bastano i primi minuti a smentire qualunque retropensiero. Dal tratto fumettistico iconico dell'autore di Vagabond (1998-2015) la macchina da presa passa a una commistione tra animazione digitale e tradizionale capace di donare movimento e conseguentemente vita ai disegni del mangaka, superando la capacità di fedeltà nell'adattamento anche dell'anime, e al contempo rendere la partita uno spettacolo visivo quasi indistinguibile da quelli dell'NBA visti in tv, con tanto di tecniche di montaggio e inquadrature acquisite proprio da quel linguaggio. A tale riuscito mix di grammatiche provenienti da diversi media Inoue aggiunge un'ulteriore strategia atta ad arricchire il pathos e il coinvolgimento dello spettatore tramite un costante ricorso a cambi di ritmo e altre manipolazioni temporali: accelerazioni improvvise quando il cuore (non a caso citato a più riprese dai personaggi) dei protagonisti batte a velocità inusitate per la fatica e la paura di non essere all'altezza dei fortissimi avversari, bruschi rallentamenti per soffermarsi sugli stati d'animo dei personaggi e sugli eventi personali che li hanno portati a dare letteralmente tutto per quella partita.

A proposito di non sentirsi all'altezza, sentimento tipico dell'adolescenza che molti di noi hanno provato a più riprese in quegli anni, lo spettacolare match sportivo messo in scena quasi in tempo reale rappresenta a tutti gli effetti un simbolo di quei riti iniziatici che segnano il passaggio dall'infanzia all'età adulta. Sebbene ognuno dei cinque titolari dello Shohoku godano di una certa introspezione, come ad esempio Mitsui (Jus Kasama) e il suo ambivalente rapporto con la pallacanestro, il centro emozionale e strumento attraverso cui percorrere questa delicata fase dell'esistenza è Ryota. Il regista del team, che in quanto tale determina tutti i movimenti dei compagni ma per fare questo li osserva più da vicino di qualunque altro spettatore, diventa l'osservatore privilegiato di quanto accade sul parquet per noi dall'altra parte della quarta parete ma, soprattutto, il filtro soggettivo dell'intera vicenda, poiché ciò a cui assistiamo è il suo momento. Troppo basso per uno sport in cui i fuoriclasse solitamente superano i due metri, poco talentuoso, seppur dotato di velocità non comuni e grandissima tecnica di palleggio, rispetto al fratello che non c'è più, troppo immaturo per fare da supporto a madre e sorellina. Il confronto con chi non c'è più è così impari da spingere il ragazzo a scrivere una lettere, che poi getta via, in cui esordisce chiedendo scusa al genitore perché a sopravvivere è stato il figlio sbagliato. In una sola, desolante frase è racchiuso l'intero mondo di insicurezze, dolore, rabbia e incapacità di esprimere sé stessi che caratterizza l'adolescenza, ancor di più forse in quella terra di mezzo che sono stati gli anni Novanta di cui è imbevuta la creatura di Inoue, quelli del disagio esistenziale cantato da Nirvana prima e Linkin Park poi e portati su schermo da David Fincher con Fight Club (1999). In questo caso, però, la tendenza autodistruttiva del giovane, che del resto condivide anche con tutti gli altri giocatoti dello Shohoku, persino l'allegro Sakuragi pronto a fare a botte con chiunque pur di affermare la propria esistenza a un mondo che altrimenti lo ignorerebbe, non si risolve in conseguenze funeste: la comunanza tra i cinque, quel gioco di squadra che decreta la differenza tra successo e insuccesso nello sport diventa ancora di salvezza anche a livello personale, nella partita della vita in cui, qualche volta, anche degli outsider che hanno subito pugni e calci continui dal destino riescono a togliere la gloria a chi ha sempre goduto del sorriso del fato.


The First Slam Dunk è letteralmente il cerchio che si chiude per un racconto iniziato decenni fa, una generazione, l'annosa dialettica tra animazione tradizionale e digitale, le coordinate su come si possa ritornare su una propria opera passata con qualcosa di nuovo da comunicare e il passato in toto. Un Bildungsroman da manuale in ogni sua componente.