Piccolo satellite orbitante attorno al pianeta Cinema ma con la forte attrazione anche per le altre arti e in particolare per quelle che più segnano la nostra contemporaneità: fumetto, videogame ecc. Fondamentale per me è che chi scriva qui abbia assoluta cognizione di causa (io ad esempio possiedo una laurea triennale al DAMS e una magistrale in scienze dello spettacolo). Auguro buona lettura e buona riflessione a chiunque voglia fermarsi su questo sperduto satellite della settima arte.
mercoledì 11 settembre 2024
THE WELL: UN AMERICANO A ROMA
venerdì 6 settembre 2024
TRAP: SHYAMALAN CI RICORDA L'IMPORTANZA DELLA FORMA
Negli ultimi anni si è diffuso tra gli appassionati di cinema un certo malcontento nei confronti dell'offerta proveniente dagli Stati Uniti, accusata di adagiarsi su una mediocritas tutt'altro che aurea e una mancanza di idee che si manifesta in una lunga serie di remake, reboot, sequel, requel ecc. Quanto è singolare che in questo panorama tra i registi che più dividono vi sia M. Night Shyamalan, che nonostante una carriera ormai quasi trentennale ha sfornato solamente due sequel e porta avanti una visione filmica estremamente personale e riconoscibile. Il 2024 vede il suo ritorno alla regia con Trap, che potendo contare su un budget di medio livello può dirsi un successo commerciale ma spacca nettamente i pareri, sia degli spettatori comuni, sia della critica.
Il film vede Cooper (Josh Hartnett), pompiere e padre come tanti altri, accompagnare la figlia Riley (Ariel Donoghue) all'attesissimo concerto di Lady Raven (Saleka Shyamalan). Quello che scopre dopo una manciata di canzoni è che l'evento nasconde una trappola ordita dall'FBI per catturare il macellaio, un serial killer colpevole di più di dieci omicidi e che si cela proprio dietro il volto del protagonista.
Trap fin dal titolo mette in chiaro la connivenza tra due generi raramente accostati: il thriller di matrice hitchcockiana e il musical, in cui il commento sonoro assume la stessa importanza narrativa di quello che nel lessico operistico si definisce recitativo. Per questo motivo Shyamalan, che fin dai tempi de Il sesto senso (The Sixth Sense, 1999) aveva abbracciato la riflessione sulle possibilità dello sguardo attraverso l'uso della macchina da presa, pone una doppia sfida al pubblico, ovvero in prima istanza quella di identificarsi in piena consapevolezza con un assassino, successivamente con le figure femminili che tentano di fermarlo, tra cui una popstar. In passato già era accaduto che dei registi sfruttassero la grammatica filmica, come l'insistenza sui primi piani ad esempio, per connettere emotivamente lo spettatore con un personaggio razionalmente e moralmente ripugnante (si pensi ad Hannibal Lecter sia sul grande che sul piccolo schermo) ma l'autore di origini indiane mette alla prova l'efficacia di tali strumenti e la capacità di chi osserva di scindere tra ragione e sentimento, cervello e stomaco, esattamente come Cooper, che in una sequenza a casa sua afferma apertamente di vivere un volontario sdoppiamento tra la vita domestica e pubblica e quella del macellaio, grazie a cui riesce a mantenere un irreale equilibrio tra istinti omicidi e rispettabilità, oltre a un profondo amore verso i figli espresso fino all'ultimo. Per chi si trova dall'altra parte della quarta parete aderire al punto di vista dell'uomo significa anche sperimentare questa dialettica interiore tipica degli assassini sociopatici, una deriva estrema di un fenomeno di dissipazione dell'empatia da cui è affetta l'intera nostra contemporaneità, come diventa evidente a più riprese nella pellicola: dai commenti totalmente fuori luogo dei fan alla live sui social in cui Lady Raven chiede aiuto perché qualcuno liberi il ragazzo imprigionato da Cooper fino all'ossessione dell'addetto al merchandising per il serial killer e le sue imprese, visto alla stregua di un eroe.
La stesso distanziamento empatico vissuto tra le diverse generazioni che assistono al concerto. Un evento che, oltre a citare altri maestri della suspense ripresa in diretta come il già citato Hitchcock ma anche Brian De Palma, viene girato con il linguaggio proprio della musica dal vivo e così evidenzia la totale mancanza di sintonia e, conseguentemente, la divergenza di sguardo tra le adolescenti che vivono con sincera partecipazione il live e i genitori che le accompagnano, chiaramente distaccati emotivamente e intellettualmente da ciò che li circonda. L'insistenza della cinepresa su una moltitudine di schermi però ricontestualizza l'amato split-screen dell'autore di Omicidio in diretta (Snake Eyes, Brian De Palma, 1998) per denunciare la distanza che si crea anche tra le fan e il loro idolo, di cui non riescono realmente a percepire la dimensione umana e pertanto istintivamente posizionano costantemente un filtro tra di essi, lo stesso peraltro a cui spesso ricorrono per dare un senso maggiormente comprensibile a un reale la cui percezione viene sempre più ovattata da chi vorrebbe proteggerli nei riguardi del male che il mondo nasconde. Esattamente ciò che fa Cooper per Riley, con la sola differenza che in questo caso è il mostro dentro di sé la minaccia.
Tutto questo e molto altro in Trap non si evince attraverso interminabili conversazioni o monologhi stantii, bensì grazie a ogni singolo movimento di macchina, stacco di montaggio, sovrapposizione visivo-sonoro che Shyamalan mette in scena, ricordandoci che il cinema, come tutte le arti, è soprattutto una questione di forma espressiva e di abilità nel manipolare l'occhio del fruitore. Se non riusciamo ad apprezzare un affabulatore in grado di riportarci al senso più profondo e primigenio della rappresentazione di sé forse dovremmo interrogarci almeno quanto Cooper.
lunedì 2 settembre 2024
THE FIRST SLAM DUNK: BILDUNGSROMAN E REMAKE DA MANUALE
C'era una volta (boomer nostalgico mode on) un mondo in cui Netflix non esisteva e il panorama anime si distribuiva sui palinsesti televisivi, segnando un appuntamento orario imperdibile e irripetibile perché il bingewatching era un concetto estraneo anche alla fantascienza e chi non si sintonizzava all'orario giusto davanti a quell'ingombrante tubo catodico rischiava di perdersi la trasformazione in super saiyan di Goku o la battaglia finale tra Seiya/Pegasus e il corrotto gran sacerdote delle dodici case. In questo contesto molti come me si sono innamorati di Slam Dunk (Nobutaka Nishizawa, 1993-1996), anime a tema sportivo tratto dall'omonimo manga ideato da Takehiko Inoue tra 1990 e 1996 in cui la testa calda Hanamichi Sakuragi si unisce a un altrettanto colorito team di basket liceale arrivando a sfiorare il titolo nazionale. A distanza di quasi venti anni dalla conclusione del fumetto il suo stesso autore, dopo una gestazione quindicennale, ritorna a quell'universo narrativo che ne ha lanciato la carriera scrivendo e dirigendo The First Slam Dunk (2022), film campione di incassi in Giappone universalmente acclamato dalla critica di tutto il mondo.
La pellicola adatta per il grande schermo uno dei momenti più importanti dell'originale cartaceo, la partita del campionato nazionale tra lo Shohoku, squadra dei protagonisti, e il Sannoh, istituto superiore con una tradizione cestistica invidiata in tutto il paese. Il match viene intervallato da una serie di flashback e momenti intimi legati a tutti i giocatori del team sfavorito, con particolare attenzione però per Ryota Miyagi (Shugo Nakamura), playmaker del quale viene rivelato per la prima volta il passato tormentato dalla perdita del padre e dell'amato fratello maggiore.
Viviamo anni estremamente legati al passato , specie per alcune fasce di età, motivo per cui cinema e serialità cavalcano quest'onda sfornando una moltitudine di remake, reboot, requel, sequel spirituali e chi più ne ha, più ne metta. L'idea di questo The First Slam Dunk potrebbe far pensare all'ennesimo tentativo di guadagnare sulla nostalgia dei Millennials ma bastano i primi minuti a smentire qualunque retropensiero. Dal tratto fumettistico iconico dell'autore di Vagabond (1998-2015) la macchina da presa passa a una commistione tra animazione digitale e tradizionale capace di donare movimento e conseguentemente vita ai disegni del mangaka, superando la capacità di fedeltà nell'adattamento anche dell'anime, e al contempo rendere la partita uno spettacolo visivo quasi indistinguibile da quelli dell'NBA visti in tv, con tanto di tecniche di montaggio e inquadrature acquisite proprio da quel linguaggio. A tale riuscito mix di grammatiche provenienti da diversi media Inoue aggiunge un'ulteriore strategia atta ad arricchire il pathos e il coinvolgimento dello spettatore tramite un costante ricorso a cambi di ritmo e altre manipolazioni temporali: accelerazioni improvvise quando il cuore (non a caso citato a più riprese dai personaggi) dei protagonisti batte a velocità inusitate per la fatica e la paura di non essere all'altezza dei fortissimi avversari, bruschi rallentamenti per soffermarsi sugli stati d'animo dei personaggi e sugli eventi personali che li hanno portati a dare letteralmente tutto per quella partita.
A proposito di non sentirsi all'altezza, sentimento tipico dell'adolescenza che molti di noi hanno provato a più riprese in quegli anni, lo spettacolare match sportivo messo in scena quasi in tempo reale rappresenta a tutti gli effetti un simbolo di quei riti iniziatici che segnano il passaggio dall'infanzia all'età adulta. Sebbene ognuno dei cinque titolari dello Shohoku godano di una certa introspezione, come ad esempio Mitsui (Jus Kasama) e il suo ambivalente rapporto con la pallacanestro, il centro emozionale e strumento attraverso cui percorrere questa delicata fase dell'esistenza è Ryota. Il regista del team, che in quanto tale determina tutti i movimenti dei compagni ma per fare questo li osserva più da vicino di qualunque altro spettatore, diventa l'osservatore privilegiato di quanto accade sul parquet per noi dall'altra parte della quarta parete ma, soprattutto, il filtro soggettivo dell'intera vicenda, poiché ciò a cui assistiamo è il suo momento. Troppo basso per uno sport in cui i fuoriclasse solitamente superano i due metri, poco talentuoso, seppur dotato di velocità non comuni e grandissima tecnica di palleggio, rispetto al fratello che non c'è più, troppo immaturo per fare da supporto a madre e sorellina. Il confronto con chi non c'è più è così impari da spingere il ragazzo a scrivere una lettere, che poi getta via, in cui esordisce chiedendo scusa al genitore perché a sopravvivere è stato il figlio sbagliato. In una sola, desolante frase è racchiuso l'intero mondo di insicurezze, dolore, rabbia e incapacità di esprimere sé stessi che caratterizza l'adolescenza, ancor di più forse in quella terra di mezzo che sono stati gli anni Novanta di cui è imbevuta la creatura di Inoue, quelli del disagio esistenziale cantato da Nirvana prima e Linkin Park poi e portati su schermo da David Fincher con Fight Club (1999). In questo caso, però, la tendenza autodistruttiva del giovane, che del resto condivide anche con tutti gli altri giocatoti dello Shohoku, persino l'allegro Sakuragi pronto a fare a botte con chiunque pur di affermare la propria esistenza a un mondo che altrimenti lo ignorerebbe, non si risolve in conseguenze funeste: la comunanza tra i cinque, quel gioco di squadra che decreta la differenza tra successo e insuccesso nello sport diventa ancora di salvezza anche a livello personale, nella partita della vita in cui, qualche volta, anche degli outsider che hanno subito pugni e calci continui dal destino riescono a togliere la gloria a chi ha sempre goduto del sorriso del fato.
The First Slam Dunk è letteralmente il cerchio che si chiude per un racconto iniziato decenni fa, una generazione, l'annosa dialettica tra animazione tradizionale e digitale, le coordinate su come si possa ritornare su una propria opera passata con qualcosa di nuovo da comunicare e il passato in toto. Un Bildungsroman da manuale in ogni sua componente.