Con un ritardo che nel 2020 sta diventando davvero imperdonabile e inspiegabile, è finalmente arrivato ufficialmente in Italia The Lighthouse, diretto da Robert Eggers nel 2019. Prodotta da A24, studio indipendente creatosi nel corso degli ultimi anni un'ottima reputazione per la qualità delle sue proposte, la pellicola ha bissato il successo di critica del precedente The Witch (Robert Eggers, 2015), senza però pareggiarne i risultati al box office, complice anche una distribuzione meno massiccia nei mercati internazionali (stendiamo un velo pietoso sull'uscita in Italia ritardataria e solamente in digitale). Pur avendo convinto la stragrande maggioranza dei recensori anglosassoni il film sembra dividere maggiormente in Europa, dove viene spesso accusato di essere un vuoto esercizio di stile, privo delle suggestioni e della compostezza dell'opera prima firmata da Eggers.
L'essenziale canovaccio attorno a cui ruota il lungometraggio vede, attorno agli ultimi scorci del XIX secolo, l'arrivo su una sperduta isola da parte del giovane che si fa chiamare Ephraim Winslow (Robert Pattinson) e del suo più esperto superiore Thomas Wake (Willem Dafoe). I due hanno l'incarico di sorvegliare il faro presente sull'isola per poche settimane. Durante il soggiorno cresce una costante tensione all'interno della coppia, alleviata solo in parte dalle piccole confessioni reciproche che avvengono durante i pasti. Al culmine dello stress per i continui maltrattamenti subiti, Ephraim uccide un gabbiano, provocando così l'ira degli dei del mare, che si abbatte in forma di tempesta, bloccando gli uomini sull'isola. Privati di aiuti dalla terraferma e senza provviste a sufficienza, i due si dedicano incessantemente all'alcol, fino a perdere ogni percezione certa della realtà.
Pubblicizzato a più riprese come un secondo horror dal regista di The Witch, questo The Lighthouse si rivela in realtà un lavoro difficilmente inquadrabile all'interno di un genere cinematografico, pur presentando numerosi elementi, citazioni e suggestioni provenienti proprio dall'horror e dal thriller. In numerose interviste Eggers ha dichiarato la propria ammirazione per Nosferatu il vampiro di Murnau (Nosferatu, eine Symphonie des Grauens, 1922) e la pellicola in analisi pare omaggiare su multipli livelli interpretativi il capolavoro tedesco. In primis la scelta di girare con pellicola in 35 mm, obiettivi risalenti agli inizi del secolo scorso e il formato 1.19:1 portano immediatamente lo spettatore verso un ideale viaggio a ritroso nel tempo, proprio verso quel periodo della storia della settima arte, così come l'ambientazione ottocentesca e il lessico esibito dai personaggi confermano uno status di oggetto antico, assolutamente distante dalla contemporaneità. Persino l'assenza quasi totale di movimenti di macchina sembra voler affermare l'estraneità del film al cinema del terzo millennio, sebbene nelle ultime fasi Eggers si lasci andare a carrellate e raffinatissimi movimenti ben più moderni.
Ancor più esplicitamente accostabili a Murnau risultano le scelte sull'illuminazione e sul tipo di bianco e nero utilizzato, con netti e antinaturalistici contrasti chiaroscurali che, oltre a omaggiare sequenze iconiche di Nosferatu (per esempio l'arrivo della peste a Londra o la scena del conte che sale le scale), sottolineano l'intenzione dell'autore di dare vita a un asfissiante kammerspiel in cui realtà e immaginazione finiscono per perdere i propri naturali confini. La pellicola vive costantemente in bilico tra presunta ragione e sprazzi onirici, fino a deragliare completamente verso la follia nel momento in cui Ephraim/Thomas causa la tempesta. Il suo rapporto con il più esperto custode assume contorni sempre più freudiani ed edipici, in perenne lotta tra odio viscerale e desiderio di approvazione, mentre i fiumi di alcol accrescono la comparsa di momenti allucinatori, tra cui dei sinistri rapporti sessuali con una sirena, intervallati dalle masturbazioni su una sinistra statuetta raffigurante proprio tale creatura marina. I crescenti riferimenti al mito classico, in particolare a Prometeo e all'Orestea di Eschilo, confermano ulteriormente la natura profondamente tragica e psicanalitica dello scontro tra i due protagonisti, che trova il suo culmine quando il più giovane pretende, con la forza, di poter accedere finalmente alla luce del faro, simbolo supremo di quella mascolinità che circonda l'intero lungometraggio. Il finale rappresenta il punto esclamativo su un percorso attraverso la follia in cui psicanalisi, kammerspiel e mitologia fungono da strumenti chiave.
Certamente The Lighthouse non si pone dinanzi al pubblico odierno con la chiarezza di lettura a cui ci abitua il post-classicismo hollywoodiano e, anzi, per certi versi estremizza l'eleganza soffusa con cui The Witch rileggeva i canoni dell'horror perdendo la sua immediata efficacia. Nonostante ciò film di questa personalità e maestria formale meritano solamente un plauso. Il cinema ha bisogno di personalità forti e coraggiose come quella di Eggers e dei suoi due attori, i mai troppo premiati Pattinson e Dafoe.
Piccolo satellite orbitante attorno al pianeta Cinema ma con la forte attrazione anche per le altre arti e in particolare per quelle che più segnano la nostra contemporaneità: fumetto, videogame ecc. Fondamentale per me è che chi scriva qui abbia assoluta cognizione di causa (io ad esempio possiedo una laurea triennale al DAMS e una magistrale in scienze dello spettacolo). Auguro buona lettura e buona riflessione a chiunque voglia fermarsi su questo sperduto satellite della settima arte.
sabato 23 maggio 2020
THE LIGHTHOUSE: EGGERS TRA PSICANALISI E MURNAU
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