Film di culto è un'etichetta spesso utilizzata a sproposito all'interno della giungla di opinioni che popola il web 2.0 ma, in estrema sintesi, si può definire tale un'opera capace di trovare un lento ma inesorabile successo, spesso grazie al passaparola tra appassionati, solamente in un momento successivo all'uscita nelle sale. Non vi è alcun nesso necessario tra cult movie e pellicola di qualità dunque, anzi ormai è entrata nel gergo di qualunque cinefilo l'espressione "so bad it's good" per definire proprio quei lavori così orribili da diventare divertenti e appassionanti. All'interno di questo sottobosco troneggia e probabilmente continuerà a farlo in eterno The Room, film del 2003 scritto, diretto e prodotto da uno dei personaggi più enigmatici che abbia mai avuto a che fare con la settima arte: Tommy Wiseau. Il mastodontico disastro in questione ha conquistato lentamente ma inesorabilmente un largissimo numero di appassionati, fino a ispirare nel 2017 The Disaster Artist, trasposizione filmica diretta e interpretata da James Franco del romanzo scritto da Greg Sestero (migliore amico e "complice" di Wiseau) sulla lavorazione del famigerato "Quarto Potere dei film brutti". L'incontro tra due menti bizzarre come quelle del poliedrico attore e cineasta statunitense con il misterioso "artista" perennemente in occhiali da sole decreta la nascita di quella che, a oggi, è considerata l'opera più riuscita di Franco, premiato persino con un Golden Globe.
Il lungometraggio mostra la nascita dell'amicizia tra Greg (Dave Franco) e Tommy (James Franco), coppia tutt'altro che ordinaria: giovanissimo, belloccio ma impacciato il primo; stralunato, dotato di uno strano accento ma fieramente convinto dei propri mezzi il secondo. Sarebbe impossibile descrivere qui tutte le stranezze di Wiseau ma ciò che conta è quel sogno che accomuna i due amici opposti, ossia l'ambizione di diventare attori famosi e conquistare Hollywood. Senza rifletterci più di tanto i protagonisti si trasferiscono proprio a Los Angeles, vivendo a spese del vampiresco personaggio interpretato dallo stesso regista, ma a ogni audizione o provino ricevono solo secchi rifiuti. Proprio quando sembra che l'incrollabile ottimismo di Tommy stia per crollare Greg riesce a ricordargli il loro patto fraterno di non arrendersi mai e in quel momento nella sua mente nasce l'idea di fregare gli studios girando un film tutto loro, un film indipendente colmo della visione del cinema e della vita di Wiseau. Il famigerato The Room diventa realtà.
La prima cosa che debbo ammettere è questa, The Disaster Artist trae ispirazione da fatti reali talmente assurdi da provocarmi un effetto esilarante anche solo nel doverne scrivere e il merito di ciò sta in buona parte proprio nel lavoro di Franco come regista e attore, capace di interpretare con una fedeltà assoluta tutte le stramberie del proprio alter ego, così come di donare efficacia comica costante alla propria opera. Eppure il film in questione è tutt'altro che una semplice commedia. In fondo sarebbe stato abbastanza semplice per un interprete d'esperienza come il candidato all'Academy Award per 127 ore (127 Hours, Danny Boyle, 2010) realizzare un lungometraggio completamente centrato sulla grottesca caricatura di un personaggio già comico di suo nel tentativo di strappare risate facili. Il vero lavoro di regia e sceneggiatura che eleva la pellicola in questione risiede nella capacità di mostrare l'umanità dietro la smania di protagonismo di Wiseau, l'amaro dietro il riso scaturito da certe battute, l'ossessione per la fama e la paura del tradimento che riescono a trasparire persino tra le maglie delle sgrammaticate scene di The Room, peraltro ricreate con un lavoro di remake shot-for-shot all'interno della pellicola che ricorda Psycho di Gus Van Sant (1998). La ricostruzione dell'eccentrico attore-regista a opera di Franco si dimostra una vera e propria esemplificazione contemporanea del concetto di umorismo pirandelliano, di quel sentimento del contrario che si insinua in ogni momento comico del film fino a scaturire come un'eruzione vulcanica nel momento in cui l'amicizia tra i due protagonisti sembra infrangersi per sempre. Proprio il rapporto che si crea tra due figure diversissime quali Tommy e Greg, affrontato con un rispetto inconsueto per sentimenti di questo tipo all'interno del cinema comico, con la sua costante centralità contribuisce a rendere evidente l'interesse sincero del regista nei confronti di una rappresentazione onesta e approfondita del Wiseau uomo, non più semplice fenomeno da deridere o venerare all'interno di qualche serata cinefila di dubbio gusto. A mio avviso questo sincero rispetto verso la dimensione umana del personaggio tradisce una vicinanza, una sorta di gioco di specchi che unisce proprio quest'ultimo e l'autore stesso, insieme alla crew di amici attori e registi con i quali ha spesso diviso le scene e che in questo caso rivestono ruoli più o meno importanti (da Seth Rogen a Zac Efron, passando ovviamente per il fratello Dave Franco). Il cineasta di Palo Alto, insieme ai suoi amici/colleghi appena citati, condivide con il creatore di The Room quel misto tra ambizione di imporre il proprio nome nel firmamento hollywoodiano, una certa dose di esibizionismo esaltato da comportamenti pubblici sopra le righe e, al contempo, una fragilità che emerge da questi atteggiamenti spavaldi. James Franco sembra soffrire come il suo personaggio del timore di non avere abbastanza talento, di essere solamente un giullare per il pubblico e di non essere in grado di raggiungere le vette artistiche toccate da James Dean, al quale spesso è stato accostato e, non a caso, idolo anche di Wiseau.
The Disaster Artist rappresenta dunque ciò che la commedia è in grado di fare quando girata con perizia e intelligenza, ossia far ridere qualsiasi tipologia di spettatore permettendogli al contempo di riflettere su questioni di umanità nuda e cruda. In questo caso Franco riesce persino a mettere a nudo una parte della propria anima spesso fin troppo nascosta sotto foto scabrose sui social e una carriera altalenante, dimostrando come si possa nascondere la vera essenza di un artista anche in un guitto. L'arte di un folle che interpreta un folle.
Piccolo satellite orbitante attorno al pianeta Cinema ma con la forte attrazione anche per le altre arti e in particolare per quelle che più segnano la nostra contemporaneità: fumetto, videogame ecc. Fondamentale per me è che chi scriva qui abbia assoluta cognizione di causa (io ad esempio possiedo una laurea triennale al DAMS e una magistrale in scienze dello spettacolo). Auguro buona lettura e buona riflessione a chiunque voglia fermarsi su questo sperduto satellite della settima arte.
mercoledì 20 febbraio 2019
martedì 12 febbraio 2019
IL PRIMO RE: EPICA PRIMIGENIA MADE IN ITALY
All'interno di quello che pare essere un vero rinascimento qualitativo e produttivo per il cinema di genere italiano un nome da tenere bene a mente è quello di Matteo Rovere, capace di adattare a un contesto geografico e sociale tipicamente nostrano un filone tipicamente statunitense come quello del film sportivo con il fortunato Veloce come il vento (2016). Quest'anno il cineasta romano cerca la definitiva consacrazione, anche a livello commerciale, con un prodotto ispirato a un modello non solo totalmente assente all'interno del panorama italiano (un lontano parente potrebbe essere considerato il nostro peplum ma ci troviamo su lidi veramente distanti) ma raro persino a Hollywood e nel resto dell'Europa: mi riferisco a pellicole quali Apocalypto di Mel Gibson (2006), IZO di Takashi Miike (2004) o l'ancora più recente Revenant - Redivivo (The Revenant, Alejandro Gonzalez Iñarritu, 2015) che affrontano storie in bilico tra mito e storia attraverso un registro formale rigoroso e tendente a un realismo ben lontano dalle spettacolarizzazioni tipiche dei classici kolossal mitologici. Il primo re, questo il titolo del lungometraggio in analisi, non nasconde le influenze da tali opere per poi seguire una propria strada, la quale finora sembra che si stia rivelando vincente, date le recensioni lusinghiere di gran parte della critica e soprattutto il gradimento di una fetta molto estesa del pubblico. Un risultato non così scontato.
Come intuibile dal titolo e dai trailer il film si basa sulla leggendaria fondazione della città di Roma nel 753 a.C. soffermandosi in particolare sulle figure dei gemelli Romolo (Alessio Lapice) e Remo (Alessandro Borghi). I due, semplici pastori del Lazio, in seguito alla fuoriuscita del Tevere dal proprio letto vengono catturati dai soldati della potente città di Alba Longa e resi schiavi insieme a molti altri sfortunati. Durante un violento rito religioso la coppia riesce a liberarsi e contemporaneamente a scatenare una rivolta dei prigionieri, con i quali fuggono portando con sé anche la vestale Satnei. La fuga è rallentata dalla ferita che sembra portare a una lenta ma inesorabile agonia Romolo e dai dissidi nel gruppo ma grazie al suo carisma e ad alcune imprese ai limiti dell'umano Remo riesce a compattarli fino a renderli una sorta di piccolo esercito, fedele al proprio nuovo re. Tutto cambia con la miracolosa guarigione del gemello ferito.
Fin dai primi annunci l'aspetto che ha catalizzato l'attenzione di giornalisti e appassionati è stato il ricorso per l'intera durata della pellicola a un idioma arcaico, un protolatino che, secondo le ricostruzioni di linguisti e filologi corrisponderebbe proprio alla lingua parlata intorno alla foce del Tevere prima della fondazione di Roma. Una scelta che non può non ricordare il già citato Apocalypto o il precedente La passione di Cristo (The Passion of Christ, Mel Gibson, 2004), così come i lunghi silenzi e il ricorso costante a un'illuminazione naturale portano immediatamente il ricordo di ogni cinefilo alla cinematografia di Terrence Malick, mentre il calvario prolungato per buona parte del lungometraggio di Romolo può essere accostato a quello di Hugh Glass in Revenant. Come già sottolineato precedentemente sono innegabili le ispirazioni di respiro internazionale alle quali Rovere attinge e con molta onestà intellettuale quest'ultimo non fa niente per celarle ma considerare Il primo re una semplice operazione di appropriazione di un genere esotico sarebbe completamente fuorviante. Laddove spesso i suoi epigoni stranieri si perdevano in alcuni casi attraverso estetizzazioni estreme della brutalità insita nell'uomo o in divagazioni tra l'esoterico e l'onirico l'autore italiano asseconda, con grande sensibilità e conoscenza del materiale narrativo di base, l'essenza primigenia del racconto mitico plasmando un mondo selvaggio, difficilmente identificabile con l'attuale Lazio, in cui a dominare sono la violenza istintuale e soprattutto superstizione, pietas, l'assoggettarsi timoroso dinanzi al potere divino. Non che appaiano durante il film dei o semidei, come nei classici interpretati da Kirk Douglas, ma quello che la macchina da presa rende palpabile, tangibile è proprio la reverenza dell'uomo nei confronti di forze che percepisce come superiori a sé e che individua in manifestazioni naturali per noi piuttosto comuni come un'inondazione, una folta foresta o il fuoco, quest'ultimo assorto a vero e proprio personaggio principale insieme ai gemelli allattati dalla lupa. Sarebbe impossibile analizzare l'opera in essere senza indugiare su Romolo e Remo, motori dell'intera vicenda e resi dalla sceneggiatura personaggi tutt'altro che unilaterali. In particolare è il rapporto fraterno che li lega, fatto di sangue ma soprattutto di amore e abnegazione instancabile dell'uno verso l'altro, a muovere l'intero film e a conquistare dal punto di vista emotivo. A differenza di quanto ci si potrebbe aspettare a scatola chiusa inizialmente l'eroe, il guerriero carismatico risulta essere Remo, il fratello destinato alla sconfitta eppure nonostante ciò mostrato in un mix di fierezza e sincero affetto per il gemello di grande caratura umana, la stessa che lo porterà verso la fine a macchiarsi di hybris scatenando l'inevitabile castigo divino. Romolo, al contrario, appare il più debole dei due fin dalla debordante sequenza iniziale e successivamente resta in vita solamente grazie alle premure del fratello ma nonostante ciò, grazie a poche linee di dialogo e gesti essenziali, Rovere riesce a tratteggiare e rendere evidente allo spettatore proprio quella pietas che lo rende il vero prescelto per dare vita al più grande impero che l'Europa abbia conosciuto. Una città, una repubblica e un impero nati, come sottolinea lo stesso re nel suo discorso finale, non da un'euforica azione fondativa, bensì da radici che affondano nel dolore di un ragazzo, nel senso di colpa per aver ucciso l'amato gemello, una meta di sé che tornerà a tormentarne la stirpe per sempre.
Il primo re si chiude dunque con una consapevolezza della perdita dell'innocenza e dell'ineluttabilità del dolore che rendono evidente una volta per tutte quanto questo film debba alla tradizione tragica e mitologica alla base della cultura italiana e occidentale, perché il mito è fatto di uomini alle prese con la sofferente consapevolezza di non poter nulla contro il fato e anche i tanto vituperati da certa critica fiotti di sangue e colpi sferrati in ralenti sono parte della tradizione mitica.
Come intuibile dal titolo e dai trailer il film si basa sulla leggendaria fondazione della città di Roma nel 753 a.C. soffermandosi in particolare sulle figure dei gemelli Romolo (Alessio Lapice) e Remo (Alessandro Borghi). I due, semplici pastori del Lazio, in seguito alla fuoriuscita del Tevere dal proprio letto vengono catturati dai soldati della potente città di Alba Longa e resi schiavi insieme a molti altri sfortunati. Durante un violento rito religioso la coppia riesce a liberarsi e contemporaneamente a scatenare una rivolta dei prigionieri, con i quali fuggono portando con sé anche la vestale Satnei. La fuga è rallentata dalla ferita che sembra portare a una lenta ma inesorabile agonia Romolo e dai dissidi nel gruppo ma grazie al suo carisma e ad alcune imprese ai limiti dell'umano Remo riesce a compattarli fino a renderli una sorta di piccolo esercito, fedele al proprio nuovo re. Tutto cambia con la miracolosa guarigione del gemello ferito.
Fin dai primi annunci l'aspetto che ha catalizzato l'attenzione di giornalisti e appassionati è stato il ricorso per l'intera durata della pellicola a un idioma arcaico, un protolatino che, secondo le ricostruzioni di linguisti e filologi corrisponderebbe proprio alla lingua parlata intorno alla foce del Tevere prima della fondazione di Roma. Una scelta che non può non ricordare il già citato Apocalypto o il precedente La passione di Cristo (The Passion of Christ, Mel Gibson, 2004), così come i lunghi silenzi e il ricorso costante a un'illuminazione naturale portano immediatamente il ricordo di ogni cinefilo alla cinematografia di Terrence Malick, mentre il calvario prolungato per buona parte del lungometraggio di Romolo può essere accostato a quello di Hugh Glass in Revenant. Come già sottolineato precedentemente sono innegabili le ispirazioni di respiro internazionale alle quali Rovere attinge e con molta onestà intellettuale quest'ultimo non fa niente per celarle ma considerare Il primo re una semplice operazione di appropriazione di un genere esotico sarebbe completamente fuorviante. Laddove spesso i suoi epigoni stranieri si perdevano in alcuni casi attraverso estetizzazioni estreme della brutalità insita nell'uomo o in divagazioni tra l'esoterico e l'onirico l'autore italiano asseconda, con grande sensibilità e conoscenza del materiale narrativo di base, l'essenza primigenia del racconto mitico plasmando un mondo selvaggio, difficilmente identificabile con l'attuale Lazio, in cui a dominare sono la violenza istintuale e soprattutto superstizione, pietas, l'assoggettarsi timoroso dinanzi al potere divino. Non che appaiano durante il film dei o semidei, come nei classici interpretati da Kirk Douglas, ma quello che la macchina da presa rende palpabile, tangibile è proprio la reverenza dell'uomo nei confronti di forze che percepisce come superiori a sé e che individua in manifestazioni naturali per noi piuttosto comuni come un'inondazione, una folta foresta o il fuoco, quest'ultimo assorto a vero e proprio personaggio principale insieme ai gemelli allattati dalla lupa. Sarebbe impossibile analizzare l'opera in essere senza indugiare su Romolo e Remo, motori dell'intera vicenda e resi dalla sceneggiatura personaggi tutt'altro che unilaterali. In particolare è il rapporto fraterno che li lega, fatto di sangue ma soprattutto di amore e abnegazione instancabile dell'uno verso l'altro, a muovere l'intero film e a conquistare dal punto di vista emotivo. A differenza di quanto ci si potrebbe aspettare a scatola chiusa inizialmente l'eroe, il guerriero carismatico risulta essere Remo, il fratello destinato alla sconfitta eppure nonostante ciò mostrato in un mix di fierezza e sincero affetto per il gemello di grande caratura umana, la stessa che lo porterà verso la fine a macchiarsi di hybris scatenando l'inevitabile castigo divino. Romolo, al contrario, appare il più debole dei due fin dalla debordante sequenza iniziale e successivamente resta in vita solamente grazie alle premure del fratello ma nonostante ciò, grazie a poche linee di dialogo e gesti essenziali, Rovere riesce a tratteggiare e rendere evidente allo spettatore proprio quella pietas che lo rende il vero prescelto per dare vita al più grande impero che l'Europa abbia conosciuto. Una città, una repubblica e un impero nati, come sottolinea lo stesso re nel suo discorso finale, non da un'euforica azione fondativa, bensì da radici che affondano nel dolore di un ragazzo, nel senso di colpa per aver ucciso l'amato gemello, una meta di sé che tornerà a tormentarne la stirpe per sempre.
Il primo re si chiude dunque con una consapevolezza della perdita dell'innocenza e dell'ineluttabilità del dolore che rendono evidente una volta per tutte quanto questo film debba alla tradizione tragica e mitologica alla base della cultura italiana e occidentale, perché il mito è fatto di uomini alle prese con la sofferente consapevolezza di non poter nulla contro il fato e anche i tanto vituperati da certa critica fiotti di sangue e colpi sferrati in ralenti sono parte della tradizione mitica.
mercoledì 6 febbraio 2019
CREED II: IL PASSAGGIO DI CONSEGNE DALL'EROE DEL PASSATO A QUELLO DEL PRESENTE
A qualsiasi latitudine vi troviate, qualunque età abbiate e per quanto possiate essere indifferenti al cinema non è possibile che non conosciate Rocky Balboa, quel pugile che, a dispetto di una scolarizzazione elementare, un fascino lontano anni luce da quello di un Cary Grant e una vita intera passata tra i sobborghi di Philadelphia, è diventato un esempio di riscatto sociale, di caparbietà e genuina umanità per il mondo intero attraverso un franchise immediatamente identificabile con il suo interprete (nonché autore di tutte le sceneggiature), Sylvester Stallone. Con l'enorme coraggio che contraddistingue proprio il suo personaggio più noto l'attore di origini italiane decide nel 2015 di rimettersi in gioco con un nuovo tassello dell'epopea di Rocky ma "solamente" nei panni di sceneggiatore, produttore e attore non protagonista in Creed, opera diretta dal talentuoso Ryan Coogler nella quale il pugile più celebre della settima arte, proprio come il suo interprete, conscio della sua età e del tempo che inesorabilmente passa diventa allenatore e mentore di Adonis, vero protagonista della pellicola. Il 2018 (2019 in Italia) segna il ritorno sul ring da parte del giovane boxeur con Creed II, diretto stavolta da Steven Caple Jr. ma capace come il suo predecessore di infiammare ancora una volta i cuori degli spettatori e anche della critica, la quale accoglie il film con un entusiasmo di poco inferiore a quello riservato al prequel.
Il secondo lungometraggio dedicato all'ascesa del giovane Adonis Creed (Michael B. Jordan) vede il protagonista diventare finalmente campione dei pesi massimi grazie agli allenamenti di Rocky (Sylvester Stallone) e alla serenità sentimentale raggiunta con la fidanzata Bianca (Tessa Thompson). Proprio quando il pugile chiede all'amata di sposarlo riceve un notizia che sconvolge: un noto organizzatore di eventi ha preparato una massiccia campagna multimediale per convincerlo ad affrontare in un incontro valido per la cintura di campione Viktor Drago (Florian Monteanu), atleta figlio proprio di quell'Ivan Drago (Dolph Lundgren) che trent'anni prima aveva involontariamente ucciso suo padre Apollo sul ring. Nonostante le perplessità del proprio coach e anche della famiglia, Adonis accetta la sfida che gli cambierà la vita.
A una occhiata superficiale o magari soltanto alla luce dei trailer Creed II potrebbe sembrare un furbo tentativo di lucrare sulla nostalgia dei fan nei confronti di Rocky IV (Sylvester Stallone, 1985), l'episodio forse più conosciuto della saga e al quale il film in analisi si ricollega direttamente a livello diegetico e anche con numerose strizzate d'occhio ma la realtà è che questo nuovo episodio del franchise non chiude solamente il cerchio della rivalità della famiglia allargata costituita da i Balboa e i Creed con Ivan Drago, bensì costituisce un vero e proprio commiato di un eroe e della sua generazione per lasciare spazio al suo successore, al campione del terzo millennio. Con quella sensibilità che gli è propria e che purtroppo è stata spesso ignorata dalla critica Stallone, autore del soggetto e co-sceneggiatore, non si limita a creare una sorta di remake che aggiornasse il canovaccio del suo precedente lungometraggio e invece decide di proseguire quel passaggio di testimone propiziato nel prequel diretto Coogler mettendo ancor più in secondo piano il suo personaggio rispetto alla crescita agonistica e umana di Adonis, ancora alle prese con il peso dell'eredità paterna ma soprattutto con il difficile passaggio da giovane a uomo, da nuova promessa della boxe a campione capace di emozionare il pubblico, da ventenne rabbioso e sarcastico a maturo padre di famiglia. Coadiuvato dall'intensità dello sguardo, della mimica nei primi piani di Michael B. Jordan, lo sceneggiatore tratteggia un eroe capace di unire l'enorme bagaglio etico del suo mentore con le sfide ancora aperte del mondo contemporaneo, tutt'altro che una blanda fotocopia di ciò che è stato e sempre sarà Rocky, il quale con saggezza si defila dal centro della scena per muoversi nei dettagli, sullo sfondo fino però a regalare agli appassionati un saluto finale che potrebbe commuovere anche il cuore di ghiaccio del più intransigente dei critici. La vera grande sorpresa del film viene però, a mio avviso, costituita dalla regia del quasi esordiente Steven Caple Jr.: il giovane cineasta afroamericano dimostra una dose non banale di personalità nel mettere in secondo piano le sequenze di lotta rispetto all'esplorazione dei drammi interiori dei personaggi, nel cambiare radicalmente registro formale rispetto a Coogler e soprattutto un lirismo da veterano nel tratteggiare due personaggi nuovi a tutti gli effetti quali Ivan e Viktor Drago. Nel già citato quarto episodio della saga inaugurata nel 1976 da John G. Avildsen il possente pugile russo era un vero e proprio flat character, ossia un personaggio monodimensionale, utilizzato per lo più come simbolo di quella guerra fredda improvvisamente ritornata in auge durante la presidenza Reagan. L'autore di The Land (2016) al contrario riesce tramite la forza delle immagini a scavalcare persino la sceneggiatura ricevuta pur di donare delle psicologie vere, palpabili a questa coppia padre-figlio nella quale la comunicazione pare affidata solamente ai silenzi e agli estenuanti allenamenti, in un clima emotivo dominato dalla vergogna per la sconfitta e il senso di abbandono dovuto all'assenza di Ludmilla, ex moglie di Ivan e madre di Viktor. Con una mossa piuttosto imprevedibile la pellicola non si apre con il trionfo di Adonis, bensì con una sequenza completamente o quasi priva di dialoghi nella quale la macchina da presa segue alle spalle gli allenamenti del talentuoso pugile ucraino fino a illustrare in pochi minuti tutto il desiderio di riscatto e il dolore che lega i due "villain". Caple Jr. dunque realizza un ribaltamento dei ruoli ottenuto solamente attraverso la forza delle immagini cinematografiche; senza bisogno di parole trasforma Ivan e suo figlio nel duo genitore-figlio/maestro-allievo in cerca di redenzione che in Creed era costituito proprio dal personaggio di Michael B. Jordan e Rocky.
Evidentemente questa era la ventata di giovinezza voluta da Stallone al momento di affidare la regia a un autore praticamente coetaneo di Adonis, una scommessa vinta e stravinta dal cineasta sotto ogni punto di vista, come testimoniano il virtuoso piano sequenza che introduce nel film Balboa o il ritmo selvaggio con cui si alternano riprese in spalla a soggettive frontali durante gli incontri di pugilato.
Creed II è insomma una pellicola che colpisce forte e in pieno petto ogni fan dell'epopea di Rocky ma soprattutto un'opera girata con cuore e notevole abilità formali. Due presupposti indispensabili per l'ascensione alla dimensione mitica di quello che non è più solamente il figlio di Apollo Creed.
Il secondo lungometraggio dedicato all'ascesa del giovane Adonis Creed (Michael B. Jordan) vede il protagonista diventare finalmente campione dei pesi massimi grazie agli allenamenti di Rocky (Sylvester Stallone) e alla serenità sentimentale raggiunta con la fidanzata Bianca (Tessa Thompson). Proprio quando il pugile chiede all'amata di sposarlo riceve un notizia che sconvolge: un noto organizzatore di eventi ha preparato una massiccia campagna multimediale per convincerlo ad affrontare in un incontro valido per la cintura di campione Viktor Drago (Florian Monteanu), atleta figlio proprio di quell'Ivan Drago (Dolph Lundgren) che trent'anni prima aveva involontariamente ucciso suo padre Apollo sul ring. Nonostante le perplessità del proprio coach e anche della famiglia, Adonis accetta la sfida che gli cambierà la vita.
A una occhiata superficiale o magari soltanto alla luce dei trailer Creed II potrebbe sembrare un furbo tentativo di lucrare sulla nostalgia dei fan nei confronti di Rocky IV (Sylvester Stallone, 1985), l'episodio forse più conosciuto della saga e al quale il film in analisi si ricollega direttamente a livello diegetico e anche con numerose strizzate d'occhio ma la realtà è che questo nuovo episodio del franchise non chiude solamente il cerchio della rivalità della famiglia allargata costituita da i Balboa e i Creed con Ivan Drago, bensì costituisce un vero e proprio commiato di un eroe e della sua generazione per lasciare spazio al suo successore, al campione del terzo millennio. Con quella sensibilità che gli è propria e che purtroppo è stata spesso ignorata dalla critica Stallone, autore del soggetto e co-sceneggiatore, non si limita a creare una sorta di remake che aggiornasse il canovaccio del suo precedente lungometraggio e invece decide di proseguire quel passaggio di testimone propiziato nel prequel diretto Coogler mettendo ancor più in secondo piano il suo personaggio rispetto alla crescita agonistica e umana di Adonis, ancora alle prese con il peso dell'eredità paterna ma soprattutto con il difficile passaggio da giovane a uomo, da nuova promessa della boxe a campione capace di emozionare il pubblico, da ventenne rabbioso e sarcastico a maturo padre di famiglia. Coadiuvato dall'intensità dello sguardo, della mimica nei primi piani di Michael B. Jordan, lo sceneggiatore tratteggia un eroe capace di unire l'enorme bagaglio etico del suo mentore con le sfide ancora aperte del mondo contemporaneo, tutt'altro che una blanda fotocopia di ciò che è stato e sempre sarà Rocky, il quale con saggezza si defila dal centro della scena per muoversi nei dettagli, sullo sfondo fino però a regalare agli appassionati un saluto finale che potrebbe commuovere anche il cuore di ghiaccio del più intransigente dei critici. La vera grande sorpresa del film viene però, a mio avviso, costituita dalla regia del quasi esordiente Steven Caple Jr.: il giovane cineasta afroamericano dimostra una dose non banale di personalità nel mettere in secondo piano le sequenze di lotta rispetto all'esplorazione dei drammi interiori dei personaggi, nel cambiare radicalmente registro formale rispetto a Coogler e soprattutto un lirismo da veterano nel tratteggiare due personaggi nuovi a tutti gli effetti quali Ivan e Viktor Drago. Nel già citato quarto episodio della saga inaugurata nel 1976 da John G. Avildsen il possente pugile russo era un vero e proprio flat character, ossia un personaggio monodimensionale, utilizzato per lo più come simbolo di quella guerra fredda improvvisamente ritornata in auge durante la presidenza Reagan. L'autore di The Land (2016) al contrario riesce tramite la forza delle immagini a scavalcare persino la sceneggiatura ricevuta pur di donare delle psicologie vere, palpabili a questa coppia padre-figlio nella quale la comunicazione pare affidata solamente ai silenzi e agli estenuanti allenamenti, in un clima emotivo dominato dalla vergogna per la sconfitta e il senso di abbandono dovuto all'assenza di Ludmilla, ex moglie di Ivan e madre di Viktor. Con una mossa piuttosto imprevedibile la pellicola non si apre con il trionfo di Adonis, bensì con una sequenza completamente o quasi priva di dialoghi nella quale la macchina da presa segue alle spalle gli allenamenti del talentuoso pugile ucraino fino a illustrare in pochi minuti tutto il desiderio di riscatto e il dolore che lega i due "villain". Caple Jr. dunque realizza un ribaltamento dei ruoli ottenuto solamente attraverso la forza delle immagini cinematografiche; senza bisogno di parole trasforma Ivan e suo figlio nel duo genitore-figlio/maestro-allievo in cerca di redenzione che in Creed era costituito proprio dal personaggio di Michael B. Jordan e Rocky.
Evidentemente questa era la ventata di giovinezza voluta da Stallone al momento di affidare la regia a un autore praticamente coetaneo di Adonis, una scommessa vinta e stravinta dal cineasta sotto ogni punto di vista, come testimoniano il virtuoso piano sequenza che introduce nel film Balboa o il ritmo selvaggio con cui si alternano riprese in spalla a soggettive frontali durante gli incontri di pugilato.
Creed II è insomma una pellicola che colpisce forte e in pieno petto ogni fan dell'epopea di Rocky ma soprattutto un'opera girata con cuore e notevole abilità formali. Due presupposti indispensabili per l'ascensione alla dimensione mitica di quello che non è più solamente il figlio di Apollo Creed.